Amleto di Scampia
Questo è un elogio della farsa. Della parodia che trasforma un classico in una scarica di elettricità, in un pezzo di vita mescolata al teatro che ci fa ridere di nient’altro che dello schifo che ci circonda (e di noi stessi). Ci vuole arte, molta arte, oggi, a non banalizzare la risata, a non scadere nella battuta sessista, bullista, pregiudiziosa, mirante ad abbattere l’altro, magari il diverso, cingendosi con i fili spinati dell’identità, di una normalità sempre più difensiva, sempre più facilmente, trivialmente televisiva. Occorre grande senso di osservazione, di autoanalisi, di autoironia. Ci vuole forse una grande tradizione alle spalle, non importa se direttamente attinta o solo respirata nell’aria. Deve essere soprattutto coltivata per strade eretiche, perché per uscire dal coro italiota troppo facilmente ridanciano è necessaria un’appartenenza distante.
Parlo della napoletana Punta Corsara e del suo Hamlet Travestie, spettacolo che sta mietendo risate sui palcoscenici di tutta Italia, dal Franco Parenti di Milano al teatro India di Roma, all’Itc di San Lazzaro presso Bologna. Amleto vive in una famiglia di Casoria, di Scampia o di qualche altra periferia sotto il Vesuvio, magari quella centrale dei quartieri spagnoli. Avvolto in una coperta fatta visibilmente a mano dalla nonna, non ne vuole più sapere di lavorare con la famiglia, al banchetto di verdure, di faticare per ripagare il debito contratto con uno strozzino, Don Gennaro, dal padre morto e dagli altri, con quell’idea stupida del bar a Casoria, dove tutti dovevano accorrere a prendere l’aperitivo, e invece… E non ne vuole sapere della sua Ornella, incinta. E, addirittura, non vuole più sentire gli amati neomelodici e appalla tutti con canzoni inglesi, come “Where Do You Go to (My Lovely)” di Peter Sarstedt, a tutto volume. E, dato devastante per parenti e affini, ha iniziato a leggere i libri, a perdersi nei libri... E ripete, come soffocato da un’aria viziata: “Accussì tanta famiglia e accussì poco simili…”.
ph. Angelo Maggio
Somiglia, questo Amleto Barilotto, al Fausto Barilotto di Antonio Petito, grande Pulcinella ottocentesco, che divertiva il pubblico partenopeo con le sue esilaranti parodie dei testi di gran successo che calcavano i palcoscenici maggiori. Il suo Don Fausto è un personaggio che ha visto l’opera di Goethe e si è identificato con il protagonista. La famiglia cerca di farlo rinsavire (per fargli firmare carte per un matrimonio), recitandogli parti dell’“immortale opera”, in cerca di controtransfert diremmo noi oggi.
Lo stesso avviene con Amleto. Pullulano intorno i familiari, invadenti, disperati per il debito che li strozza, ma non tanto da non concedersi una giornata di sole al fiume, sempre a scrutare quell’estraniamento del giovane che rompe i vincoli e i riti della tribù, melanconico forse anche per la morte del padre, schiantatosi con una Duna contro un muro. Il cugino – che ogni volta per entrare dai Barilotto deve superare uno sbarramento di guappi o spacciatori o guardie del corpo di qualche boss, che chiedono chi è e che ci va a fare nel palazzo – porta il padre, Don Liborio, ‘o Professore, esperto in libri perché ha una bancarella di volumi usati al mercato: sarà lui a proporre agli altri di mettere in scena l’Amleto per far rinsavire il nostro, e recuperare la sua forza lavoro.
E tutto diventa esilarante, con spettri molto poco spettrali che appaiono camuffati dietro al vetro di un box doccia, parecchio goffi, con fidanzata dalla voce spaccatimpani strizzata in bluse leopardate mandata amleticamente “in convento”, con il povero zio Salvatore che indossa i panni del fetente Claudio, l’usurpatore (‘o malamente della sceneggiata?), con la madre, altra voce da ultrasuoni e presenza da vicolo, vociante, che ingombra la scena e non le manda a dire. Recitano, malamente, senza troppo capire il testo, i compiti, il matrimonio di Claudio e Gertrude, la finta uccisione di Polonio (don Liborio), il finto suicidio di Ornella-Ofelia, con sempre, in tasca, la carta di riserva: se non guarisce (cioè, se non si mette a lavorare), lo facciamo certificare per pazzo e almeno ci prendiamo la pensione. E lui si avvolge ancora di più nella copertina, si imbozzola, e si chiede: che devo fare… e quando un palo del boss gli pone la fatidica domanda, sotto al portone: chi sei?, risponde: “Che domanda. Je nun saccio neanche si songhe o nun songhe”, e voilà: il monologo di Amleto.
Le trovate sono moltissime, esaltate da una sapienza del ritmo teatrale da consumati, ottimi professionisti, quando la media dell’età della compagnia è sui 26 anni (professionisti di quelli rari, capaci di sorprendere gli spettatori perché si divertono e si sorprendono essi stessi per primi). La girandola delle invenzioni si fa inarrestabile, intorno a pochi panchetti rossi mobili che formano gli ambienti, le scenografie, grazie anche agli interventi delle efficaci luci di Giuseppe Di Lorenzo. Viene triturato il testo di Shakespeare, con le sue alte metafore, e viene frullata la realtà di quartiere, napoletana, dove Amleto è stato spostato come un Don Chisciotte impazzito per disgusto di una realtà avvilita e per amore di quella sognata sui libri. La Danimarca è una prigione, ripeterà Amleto, spinto dai parenti a fuggire dopo aver “ucciso” Polonio: ma come si fa ad andare lontano prendendo l’autobus 47? Meglio tornare sui propri passi e dare una bicchierata all’usuraio Don Gennaro, e stenderlo. Per finire solo, di nuovo, con quella coperta addosso, diversamente, in luce fredda, con malinconia in una cella, perché “la Danimarca è una prigione”.
ph. Lucia Baldini
Questo spettacolo compie un percorso ammirevole, quello di un gruppo di giovanissimi incontratisi nel progetto Arrevuoto di Marco Martinelli, che tra il 2005 e il 2008 ha unito ragazzi di varie scuole di Napoli a Scampia, cercando di trovare con il teatro un modo per rendere più vivibile una terra all’epoca insanguinata da lotte tra i clan. Dopo la conclusione corale della prima fase, fu fondata Punta Corsara, con un corso di formazione per attori e tecnici che ha prodotto questo ensemble unico, entusiasta, di grande caratura. Lo spettacolo, nella sua genesi, testimonia anche un metodo di lavoro e una ricerca. Presentato come studio al teatro Franco Parenti di Milano in una rassegna di “giovani” Amleti per ricordare i quarant’anni dell’Ambleto di Testori, un testo capace di reinventare quello shakespeariano mettendolo in cortocircuito con una realtà e una lingua popolare, si è sviluppato guardando a parodie settecentesche della famosa pièce (Hamlet Travestie, parodiato, di John Poole) e a lavori della tradizione partenopea come quello di Petito.
Il tutto è stato shakerato dai due autori, Emanuele Valenti (che firma anche la regia) e Gianni Vastarella, con l’aiuto drammaturgico di Marina Dammacco, in un lavoro originale, che parte dalla grande letteratura drammatica e dalla tradizione teatrale campana per guardare la Napoli di oggi, e i suoi disgusti. Alcuni lavori precedenti si chiamavano PetitoBlok e Il signor di Pourceaugnac: erano anche quelli incontri tra la storia locale che gli attori si portano dietro, nel corpo, nella voce, nel ritmo, e la tradizione culturale europea. Come a dire che non può esserci l’una senza l’altra, altrimenti abbiamo “lazzi” o pagine cristallizzate lontane dalla vita. L’opera necessaria, il comico appartenente e distante, non conciliante, abrasivo, quello che non sanziona semplicemente gli scarti dalla norma, è alchimia, come insegna Marco Martinelli. È creare l’oro dalla materia vile che ci circonda, dal disgusto, dall’incrinatura malinconica della non appartenenza. È dare la felicità attraverso il senso del contrario, come fanno, da giovani maestri, in scena, i bravissimi Giuseppina Cervizzi (Amalia, la madre di Amleto), Christian Giroso (zio salvatore), Carmine Paternoster (il cugino Ciro), Valeria Pollice (Ornella-Ofelia), Emanuele Valenti (‘o Professore), Gianni Vastarella (Amleto).
Una produzione 369 gradi, in collaborazione con Teatro Franco Parenti e con il sostegno di Armunia / Inequilibrio Festival, Fuori Luogo – La Spezia, Olinda, in tournée: venerdì 20 al teatro Era di Pontedera e poi in altri centri, con conclusione al Nuovo di Napoli il 28 e il 29 aprile.