In-Box dal vivo a Siena / L’invenzione dello spettatore

24 Maggio 2018

Si chiama In-Box. È un percorso lungo un anno ed è due festival, uno dedicato agli spettacoli per ragazzi e uno a quelli per il pubblico adulto. Nella fase finale si svolge a Siena e suscita, al di là della qualità degli spettacoli presentati, qualche domanda essenziale su alcuni punti: lo stato della distribuzione e del radicamento del teatro nuovo, indipendente, emergente, non o poco finanziato; il rapporto tra riproduzione video e spettacolo dal vivo; la questione degli spettatori: chi sono, come chi fa teatro li conosce o lo presume, immagina di allargarne numero, interessi e impegno e indirizza la creazione misurandosi con la loro presenza-assenza (audience development è una sigla di successo nel teatro d’oggi, contenuta nei programmi europei di sviluppo del settore, un “processo strategico e dinamico di allargamento e diversificazione del pubblico e di miglioramento delle condizioni complessive di fruizione”).

 

In-Box verde, riservato al teatro ragazzi, non l’ho seguito. Segnalo solo il vincitore, Et amo forte ancora di Locanda Teatro di Milano, che si è aggiudicato 12 repliche

Il meccanismo di uno dei pochi festival che termina con una premiazione è interessante: si vincono repliche pagate presso le strutture della rete In-Box, costituita di più di cinquanta tra teatri, centri di produzione, festival, circuite regionali che sostengono la manifestazione, organizzata e diretta dal Teatro Straligut di Siena, col contributo di Fondazione Toscana Spettacolo onlus, Comune di Siena, Regione Toscana, Università di Siena, Ministero dei beni e delle attività culturali.

Ancora più interessanti sono le modalità di partecipazione e selezione: le compagnie mandano un video completo del proprio lavoro, che viene visionato e discusso dagli aderenti alla rete, divisi in cinque o sei gruppi per far fronte al numero di documenti da esaminare (in questa edizione circa cinquecento, rintracciabili integralmente o a stralci nell’aria riservata www.ilsonar.it, “motore di ricerca del teatro emergente”, che contiene anche video di repertorio o presentati per le scorse edizioni). Dopo la prima scrematura, si passa a eliminatorie successive, finché i titoli prescelti (sei) vanno in scena dal vivo in due teatri di Siena in un fine settimana di maggio. A quel punto gli aderenti alla rete votano comprando uno spettacolo a testa per struttura: chi somma più recite vendute per la stagione successiva, vince.

 

Desidera, Il teatro nel baule.


Evidentemente si tratta di una risposta alla crisi del teatro, al fatto che a un aumento delle produzioni e della creatività, manifestata con spettacoli di diverso tenore e stile, non corrisponde una possibilità di circuitazione adeguata. Potremmo dire che l’offerta supera la domanda, in un sistema teatrale che almeno fino non molto tempo fa sembrava saldamente arroccato in modi produttivi tradizionali o esclusivi, che lasciavano solo le briciole a quelli che vi arrivavano per vie non accreditate. La situazione sembra oggi più mobile grazie ai circuiti regionali, ai centri di produzione e al nuovo accento, perfino eccessivo in certi casi, posto sulla creazione di nuove opere, a detrimento spesso della garanzia di poter far girare prodotti “rischiosi”. Eppure le programmazioni non riescono a far fronte alla massa di compagnie, piccole e grandi, di gruppi e singoli che cercano nel teatro la strada per esprimere una propria visione del mondo, o semplicemente per riversare un’aspirazione, la volontà di sperimentarsi in un lavoro inventivo, non servo. Un eccesso di produzione forse insostenibile, testimoniato dai cinquecento video arrivati.

Qui si pone un altro problema, vecchio in verità: come si può giudicare uno spettacolo, che vive di relazione, di spazi, prospettive e momenti particolari, dalla fissazione in un video, che privilegia un solo punto di vista, che sarà riduttivo nel caso di riprese non troppo sofisticate tecnicamente, o all’opposto eccessivamente artefatto, troppo ben costruito come video, tanto da abbellire, agghindare, e quindi anche in questo caso tradire, la performance originale. Insomma, il video è traditore e la sensazione per alcuni spettacoli visti a In-Box dal vivo, sezione adulti, è che la scelta sia stata male orientata da video troppo suggestivi, per spettacoli che in presenza esaurivano presto le proprie risorse.

 

Phoebuskartell, Il ServoMuto Teatro.


È il caso di Desidera, una favoletta flebile flebile della compagnia campana Il teatro nel baule, un sovrapporsi di presente e memorie, di sogni svaniti nelle ferite di una vita che anchilosa, rende zoppi e lenti, fisicamente e sentimentalmente, senza tuttavia riuscire del tutto a estirpare i sogni. Le idee sono poche, con stilemi parecchio da “teatro ragazzi”, ossia miranti a un facile riconoscimento, che odora di poeticismo, di miele sparso in misura sovrabbondante su pensieri e azioni. Lo spettacolo ha guadagnato due sole repliche (e su questo meccanismo della vincita di “piazze” ritornerò). Al penultimo posto si sono classificati, assicurandosi sei recite ciascuno, Phoebuskartell di Il ServoMuto TeatroNeve di Giovanni Betto. Il primo è un cabaret brechtiano sull’aggiotaggio e sulla creazione dei monopoli, un tentativo di portare la riflessione economica a teatro. Parte da un episodio storico, un accordo segreto tra produttori di lampade a incandescenza a obsolescenza programmata, per ripercorrere con vecchi modi brechtiani un copione già troppe volte visto sui delitti del capitalismo (quanto avremmo bisogno piuttosto di leggere un buon saggio su tali argomenti, invece di assistere a semplificazioni compiaciute della chiave di un facile grottesco). Neve è la narrazione della storia di un disperso in Russia nella seconda guerra mondiale: anche qui siamo in qualcosa di già visto mille volte, con qualche abilità affabulatoria ma senza tocchi originali. 

 

Neve, Giovanni Betto, ph. Raffaella Vismara.


Più interessanti i tre spettacoli meglio classificati: Nessuna pietà per l’arbitro di Emanuele Aldrovandi, prodotto dal Centro teatrale MaMiMò (otto repliche), Lo soffia il cielo. Un atto d’amore, composizione di due testi di Massimo Sgorbani, una creazione di TrentoSpettacoli (nove repliche), e It’s app to you. O del solipsismo di Bahamut Teatro (ventuno repliche), due lavori con una drammaturgia d’autore e uno, il vincitore, che variamente strizza l’occhio al mondo dei nuovi media, calando gli spettatori nei labirinti di un videogioco interattivo dal vivo.

Il testo di Aldrovandi mostra una famiglia sull’orlo del collasso, vari destini diversamente scollati, mentre rievoca il potere unificante della Costituzione. Una trama da giallo, l’uccisone presunta di un arbitro-cacciatore-di-teste-per-nuovi-lavori da parte di un giocatore collerico nonché disoccupato in cerca di occupazione, si inserisce nel quadro di una famiglia sui generis, col compagno della madre poco più grande e sodale di basket del figlio, precaria, simile a molte di quelle odierne, e precaria. La storia, recitata in modo disuguale – all’inizio e in certi momenti con stilemi più convenzionali, poi con qualche incalzante verità – parte in modo rigido, dimostrando fin troppo chiaramente i suoi assunti, ma acquista nello svolgimento qualche motivo d’interesse. 

 

Nessuna pietà per l’arbitro, Centro teatrale MaMiMò.


Molto più forte è lo spettacolo che incrocia Angelo della gravità e Le cose sottili dell’aria di Massimo Sgorbani, due solitudini che esplodono, quelle di una madre e quelle di un figlio, inchiodati a uno stesso divano, interpretati con alternarsi di primi piani e scomparse nell’ombra da una densa Cinzia Spanò e da un Francesco Errico apparentemente più leggero, ma pure di bella svagata forza. Siamo nella tragedia di una quotidianità vissuta come assenza, come ricerca di sostituzioni di qualcosa che profondamente manca. E lo spettacolo si incide fortemente, con la sua formicolante tragicità antiretorica, perfino banalmente sommessa.

Molto ammiccante è il vincitore, che porta lo spettatore in un gioco a scatole cinesi tra realtà e rappresentazione, titillando la corda della comicità, suscitando un’adesione più facile, con controfinale amarognolo. E qui sorge un dubbio sulla formula di In-Box. Premiare con l’acquisto di recite, alla fine sembra riconoscere la vendibilità di uno spettacolo, sulla base dei gusti medi presunti del proprio spettatore. Ognuna delle strutture, però, qui fa, nel breve tempo del giudizio e della votazione, un lavoro interessante: è come se scansionasse il proprio pubblico, lo interpretasse, e cercasse lo spettacolo che possa corrispondergli. Lo ricostruisce per via indiziaria, sulla base della partecipazione, dei laboratori fatti, del lavoro che accompagna di solito la programmazione. E pure in qualche modo lo inventa, presuppone come soddisfarlo e moltiplicarlo sulla base di linee riconoscibili.

 

Lo soffia il cielo. Un atto d’amore, TrentoSpettacoli, ph. Umberto Terruso.


Sembra l’inverso di quello di cui avrebbe bisogno il teatro, la ricerca di nuovi spettatori, da incontrare per vie non precedentemente battute né banalmente didattiche, suscitando sguardi inediti e passioni non scontate. Lo scegliere gli spettacoli sulla base delle possibilità di riscontro di pubblico che possono avere appare l’inverso di quel difficile impegno che è stimolare gli sguardi attraverso un confronto anche arduo ma deciso, forte, poetico e non poeticistico, scossante, disturbante, e non una possibile qualsiasi forma di consenso in nome della pur necessaria sopravvivenza.

Certo, questo impegno sembra molto lontano dalla realtà di luoghi (teatri, centri, circuiti, compagnie) che devono fare tutti i giorni i conti con le economie, guadagnate sul campo o garantite da enti pubblici sempre più occhiuti e poco motivati a rischiare investendo sulla cultura (le ultime derive della svendita turistica delle nostre città sembrano dimostrarlo). Eppure il discorso va riaperto, tra consenso e esperimento, tra rigore che lentamente contagia e fa esplodere e stato corrente della produzione, che in cerca di visibilità si affida alle regole del marketing, di una troppo semplice riconoscibilità tematica e di un’estetica che scivola, inevitabilmente, nel pagante grembo rassicurante del comico. 

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