Sardegna/Napoli / Lingue corpo scena: Macbettu, Napucalisse
C’è un teatro mortale e un teatro sacro, c’è un teatro performativo e un teatro del reale, c’è un teatro di convenzione e uno di ricerca, uno di tradizione e un altro di innovazione. E c’è un teatro tellurico, che mira ad aprire lo sguardo verso immagini profonde, con mezzi diversi. Castellucci che scuote con macchine a pistoni che danzano il Sacre du printemps di Stravinskij, o che trascina lo spettatore in suoni insopportabili di terremoti-apocalisse. Un teatro di emozioni devastanti, di immagini sconvolgenti, ma anche di parole ingrugnate, epilettiche, che aprono altre zone della percezione o semplicemente di forme di socialità differenti da quella dominante borghese. Quest’ultimo teatro è associato spesso ai suoni rudi, inurbani (in senso proprio, contadini, arcaici nella nostra società che ha industrializzato e urbanizzato tutto, le campagne, i paradisi esotici, le montagne, la primavera, l’inverno…), ai suoni gutturali, idiolettici dei dialetti.
C’è stato un momento in cui il teatro pensava in generale di poter sfuggire dalla sua inefficacia di rito borghese attingendo ai dialetti. Dal teatro di Eduardo a quello più denso di umori plebei di Viviani, a quello di guitti meravigliosi come Totò, che parlavano l’antico lessico della fame. E poi arrivarono Annibale Ruccello e Enzo Moscato, e scoprimmo che i dialetti parlavano la nostra stessa lingua espropriata, fatta di contaminazioni. Venne la poesia romagnola di Mariangela Gualtieri e riscoprimmo quel Bernhard della provincia romagnola che è stato Lello Baldini grazie a Ivano Marescotti e Marco Martinelli, con Zitti tutti! nel gran teatro Alighieri di Ravenna, dove tutti ridevano come pazzi a quei suoni incatramati, a quelle rampogne premonitrici di paure, diffidenze e esclusioni, e noi bolognesi non capivamo un solo suono, ma “vedevamo” tutto, dentro, sotto, forte. Vennero i siciliani: l’Omero dell’Albergheria, “l’aristocratico poeta delle caverne” Franco Scaldati, venne Emma Dante dentro la sua Palermo rivissuta tra modernità devastata e succhi dell’antica vastasata, e vennero molti altri. Arrivò Ermanna Montanari con la sua lingua canto strazio grido e preghiera sui versi di Nevio Spadoni, un altro dialetto romagnolo, un altro idioletto, quello della Ville Unite, alcuni paesi di campagna intorno a Ravenna… Come spesso avviene nel teatro, questo movimento non è mai diventato una corrente unitaria, travolgente: tutto sfumò, tutto rimase, tutto si assestò in molte differenze; molto fu riportato alle ragioni di una scena che sta esaurendo ogni rapporto con il pubblico, con quello tradizionale e con quello assetato di avventure perigliose; molti coltivarono una propria orgogliosa differenza, in isolamento. Poi vennero, ogni tanto, altri irregolari, altri avventurosi sperimentatori, regressivi forse, o visionari, antropologi o semplicemente registratori di suoni e orizzonti mentali in via di sparizione, inventori di altre lingue, esploratori di altre possibilità o corpi in eroica resilienza.
Ermanna Montanari resiste sempre, con la sua aria di super raffinata strega campagnola che nessuno potrà mai mettere al rogo. E ora, in Sardegna, Alessandro Serra di streghe ne evoca tante, in quella lingua oscura, magica, tellurica che è il barbaricino (tellurica: già, i dialetti sono sempre terragni, tellurici, termini che esprimono un rimpianto e un terrore). La lingua di Barbagia o uno dei suoi dialetti, quello di Lula, paese nel centro della Sardegna, dove il regista romano di padre sardo andò a scontare una decina di anni fa la sua saudade antropologica per fotografare un carnevale. Da quei riti di maschere, di maschi, di vino, di campanacci, di sangue di animali ha tratto le suggestioni per un Macbeth nero nero, andato in scena a Cagliari per Sardegna Teatro, l’ente diretto da Massimo Mancini. Con i suoi suoni poco comprensibili anche a quella parte meridionale di isola, per poi mettersi in tournée verso la Sardegna profonda.
Macbettu di Alessandro Serra, a Cagliari
Macbeth diventa Macbettu in questa versione inserita dalla nuova direzione di Sardegna Teatro di Cagliari in una rassegna, #Madeinsardinia, che ha invaso dal 22 marzo gli spazi del teatro Massimo, mettendo insieme performance, installazioni e un altro spettacolo, un racconto con musiche sull’eterno tema della migrazione dall’isola e delle nostalgie che provoca, Esodo, tributo a Sergio Atzeni, scritto diretto e interpretato dal giovane Valentino Mannias, uno spettacolo condotto con bravura ma abbastanza di maniera.
Macbettu si svolge in una scena scura, di terra, con un muro di legno per fondale, trasformato dalle luci radenti in barriera di pietra, di metallo, luogo di fumi e incantesimi, fessure dalle quali emergono in un’incerta luce le ambizioni, gli odi, le violenze dei personaggi.
Alessandro Serra, fondatore della Compagnia Teatropersona, segnalatosi ultimamente per H+G, uno spettacolo sulla diversità prodotto con Accademia Perduta, ha una formazione grotowskiana e antropologica. Del Macbeth mette in risalto l’aspetto arcaico, la violenza rituale, calandolo nei carnevali barbaricini. Le streghe sono esseri misteriosi e comici, maschere simili a vecchiette o prefiche di paese, con tratti a volte grotteschi, carnevaleschi, a tratti inquietanti. Rappresentano un’intrusione del soprannaturale, o del profondamente psichico, che diventa male, perché a esso non si sa dare né spiegazione né nome.
Gli interpreti di questo Macbettu in cui i rapporti di forza sono esasperati su un piano prettamente fisico sono tutti uomini, come nel teatro di Shakespeare e come in certi rituali popolari della Sardegna profonda.
La scena si apre in uno sconvolgimento naturale, terremoto, fumi o pioggia, con esseri che si calano dal muro di fondo simili a figure del periodo nero di Goya (altrove la scena si sposterà in ambientazioni di paesaggi di Brueghel affumicati). Siamo nel sonno della ragione che genera mostri, ma anche in un clima rituale, danzato, nella battaglia con le sue urla e le sue lacerazioni e nella derisione carnevalesca delle maschere delle streghe, che di fronte a guerre e odi si lanciano in gag a volte esasperate, reiterate, compiaciute, perfino manierate. Come un gigante emerge il Macbettu potente, violento, straziato di Leonardo Capuano, in guerra con la sua voce interna nera, incarnata a tratti nella figura lunga allampanata di una Lady Macbeth barbuta, semplice comprimaria del suo delirio di potere, diffidenza, odio. Ogni assassinio è atto di violenza a corpo a corpo e diventa un sasso piatto che va a formare un barbarico obelisco alla sete di dominio, tra versi di porci e di altri animali al mattatoio, tra campanacci, risse e fiumi di vino, la festa, la morte, il sacrificio rituale per rivelare alla società i suoi deliri.
Le luci, l’atmosfera, nei momenti più cupi, il banchetto con il fantasma di Banquo, le uccisioni, si fanno violentemente teatrali, con la calata di uno stangone con fari che stagliano le figure in controluce, con legni basculanti, in un palco misterioso, che sembra spazializzare tormenti interiori, in uno spettacolo che apre e chiude diverse soglie, che svuota le sedie occupate dagli uomini che detenevano il potere, che passa dalla processione al vaticinio al funerale al macello. Il sonnambulismo e la morte di Lady Macbeth sono un issarsi del corpo nudo su una parete e un precipitare nel buio, e il lutto di Macbettu, il famoso monologo sulla vita come una favola piena di furore che non significa nulla, è un dondolarsi su una sedia, con quella parola, nuddu, nulla, che spicca. E poi avanza la foresta di Birnam, gli attori con maschere di sughero sul volto, figure animalizzate, diavoli o mamuthones di riti carnevaleschi, e si precipita nel finale…
Lo spettacolo vive della lingua (che meriterebbe comunque una traduzione in sovratitoli, alla quale si sta pensando per la date “continentali”) e della forza degli attori, tutti da citare, Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino, Leonardo Tomasi e il fenomenale Leonardo Capuano, capace di donare sinistro dolore e raffrenata furia incontenibile al protagonista. La traduzione in sardo e la consulenza linguistica è di Giovanni Carroni; regia, scene, luci e costumi sono di Alessandro Serra, per una tragedia resa ancora più fosca e arcaica, con una domanda aperta su come quel mondo di passioni ancestrali calate nello stampo shakespeariano possa riguardare noi smagati abitanti delle città.
Lo spettacolo, dopo la tournée nell’interno della Sardegna, cercherà una tale verifica al Crt di Milano dal 23 al 28 maggio, a Primavera dei teatri di Castrovillari il 30 maggio, al teatro Vascello di Roma il 2 ottobre.
Napucalisse di Mimmo Borrelli a Enter, Ravenna
La lingua è lava, gesto e sudore, ballo, trance, rito pagano, sguardo sulla presente desolazione in Napucalisse di Mimmo Borrelli, scrittore e attore che porta nel suo teatro il sobbollimento sulfureo della sua terra, i Campi Flegrei di Napoli. Non è un dialetto arcaico, il suo, non solo; è lingua antichissima e lacerazioni trash di un popolo perso, di una città alla deriva senza rotta tra passato e presente, almeno in quest’opera, presentata originariamente come oratorio al teatro San Carlo di Napoli (con problemi di censura per il linguaggio nudo, rude, violento) e ripresa ora per Enter, la rassegna di primavera del Teatro delle Albe curata da Ermanna Montanari. Si è aperta sabato scorso davanti al teatro Rasi di Ravenna con un sipario di carta che veniva incendiato dall’attrice per aprire la strada verso una scena ctonia, psichica, fiammeggiante.
Il falò, Lumen, era un’azione che avevamo visto di notte a inaugurazione del festival di Santarcangelo 2016. Ideata da Luigi De Angelis di Fanny & Alexander con gli interventi sonori di Emanuele Witsch Barberi là durava varie ore, cercando effetti incantatori, finché la grande catasta di legna non si consumava. Qui era un introibo nella luce del primo tramonto, un tracciare un sentiero misterioso, aperto dall’amplificazione del battito del cuore dell’attrice, per una rassegna nata come “richiesta di accesso a luoghi segreti, a un interiore che si avvicini per fragilità alle pareti dell’intestino, l’enteron greco, il dentro”. Dentro cosa? “Dentro le parti cave dove si annidano visioni imperdonabili” scrive Ermanna Montanari, citando gli “imperdonabili” per capacità di evocare la bellezza in un mondo corrivo di Cristina Campo.
La rassegna è stata subito una discesa nel difficile rapporto tra i vivi e i morti, tra l’esistenza quotidiana e il ricordo, con quel capolavoro che è La vita ferma di Lucia Calamaro, recensito su “doppiozero” al debutto, lo scorso autunno.
Poi venne Borrelli. Dal di dentro e sulle pendici del Vesuvio. Il suo testo è un dialogo tra Lucifero, il fuoco sprofondato nel vulcano, l’angelo bellissimo e nonostante ciò invidioso e perciò caduto, lanciato nel cuore della terra col suo ribollire incandescente, e un Pulcinella deluso, smascherato. Il magma, le fiamme, la lava che erutta è la stessa Napoli, vitale e assassina, bellissima e devastata, e devastante, rivissuta in una lingua che si contorce, come il corpo dell’attore, sudato, accaldato, via via denudato, a ripercorrere il nero, l’oscuro sotto il nero, la giustizia ingiusta, la bestemmia, il sesso dilatato a improperio e aggressione, l’energia che invece di creare distrugge...
Borrelli, accompagnato con molti strumenti da Antonio Della Ragione, all’estasi, alla derisione comica, invade il palcoscenico di parole, di visioni, di imprecazioni, rampogne, invettive, eccessivo come quella città, come la sua popolazione che come lava invade una natura lussureggiante, come i pranzi di nozze rabelaisiani e di plastica, come i tumori che divorano quelle terre, come la forza dei corpi, come il sudore ancora, la vitalità, in una salmodia fisica e vocale, un raschio di gola, un gorgoglio di pancia che diventa rap, grido, ritmo, racconto, epilessia tarantata, camorra, sesso, pizza, insulto, sborra, lava, oleografia, arrochimento, grido, bestemmia, invocazione, lotta, sempre dalla parte del torto, contorcimento mare notte stella filante di Natale in casa Cupiello che tutto mette a tacere nel buio.
Quanto Macbettu crea un rituale di morte e disperazione essenziale, in sottrazione, perfino algido, carico di gesti asciugati per rimbombare più forti, più violenti, tanto Napucalisse racconta una terra per eccessi, ugualmente in cerca di una lingua gesto, che muova qualcosa di molto profondo, ancestrale, nascosto nel quotidiano sdarsi, vendersi, arrabattarsi, consumarsi. In un teatro ugualmente e diversamente eccessivo, massimalista, fuori luogo, per sfidare l’inadeguatezza dei luoghi comuni.