Prevedibili trasgressioni / Iconologie del tatuaggio
Una breve di cronaca ci colpisce. Sembra che in una città italiana di provincia un topo d’appartamenti sia stato beccato dalla polizia grazie a un tatuaggio che ornava la sua gamba destra. Nei mesi estivi svaligiava decine di case a capo coperto ma, dato il caldo, stava in bermuda: e a un certo punto le telecamere di una di queste abitazioni gli hanno inquadrato il polpaccio decorato con un segno, ahilui, indelebile che ha ne permesso il riconoscimento trascinandolo dritto in galera.
Apparentemente banale, come tutti i faits divers, l’accaduto conserva invece tracce residue di antiche credenze e antiche abitudini che pescano nel profondo dell’antropologia umana e sociale. Cozzando un po’ con credenze e abitudini della contemporaneità. Da una parte, ecco confermata l’ideologia stereotipa, di lombrosiana memoria, che associa tatuaggi a malavita. In una società come l’attuale, dove il cosiddetto segno tegumentario è una moda straripante per grandi e piccini di ogni ordine e grado, pura estetica interclassista pressoché priva di significazione, sentire di un ladro tatuato per certi versi commuove. Sa tanto di vintage. Mette le cose a posto: e rassicura. Sembra fra l’altro che il tipo in questione un po’ d’annetti in galera li avesse già scontati. Fantastico: il tatuaggio dei carcerati! Ed eccoci proiettati in un libro di antropologia criminale, o in una serie tivvù piena di machi cattivoni.
D’altra parte, dei rituali e delle poetiche del tatuaggio – d’antan e no – la nostra storiella riprende altri tratti fondamentali: come quello del gioco fra coperture e scoperture del corpo, vestiti e pelli decorate, pudori esibiti e nudità da celare. Il poveruomo – consideriamolo per un poco così – a suo modo stava lavorando bene: s’era coperto accuratamente il viso per evitare d’essere identificato, agendo su quel tratto somatico che tradizionalmente funziona da segno di riconoscimento: la fisiognomica facciale. Ma nella scheda che lo riguardava conservata dalla polizia c’era dell’altro a cui lui, stolto, non aveva pensato: e cioè proprio quel tatuaggio nel polpaccio che ci piacerebbe immaginare gli anni di reclusione gli avevano lasciato in eterna eredità. Il segno tegumentario, indizio tradizionale per l’identificazione dei malviventi, si dimostra ironicamente efficace: e il ladro viene acciuffato. Ancora di più tutto sembra tornare a posto: lasciando l’estetica frivola dei milioni e milioni di corpi tatuati che oggi circolano per il mondo priva d’ogni funzione sociale e d’ogni valore culturale. Che ne è del mondo pazzo e variegato di tatuati e tatuatori, cataloghi d’immagini più o meno simboliche e di inchiostri più o meno indelebili, rassicurazioni dermatologiche e ispezioni psicologiche per adolescenti, riviste di settore e trasmissioni televisive, fiere e concorsi, siti web e chiacchiere sui social, brand di moda e mostre d’arte intorno a questa pratica che sino a pochi decenni fa sembrava sparita dall’orizzonte della storia, e che invece ha invaso ogni meandro della socialità contemporanea? Siamo certi che la notizia in questione ne sia esente?
Se ci attrae, allora, questa breve di cronaca, è proprio perché con un avvitamento di centottanta gradi non rimette per niente le cose a posto: fa semplicemente tornare la storia come farsa, parla di un tatuaggio che non c’è più e che pure c’è di nuovo, nonostante tutto quel che intorno a esso sta succedendo dentro e fuori i media, ma, appunto, in un faits divers, in un tipo di discorso che mira tra il serioso e il sarcastico a sottolineare la stranezza delle situazioni, il colmo che separa, producendoli in un sol colpo, il fondo di normalità e il primo piano di notiziabilità. Alla fine resta un vuoto, un interrogativo pressante e sfuggente insieme: come intendere la moda del tatuaggio di massa, che quasi sicuramente avrà preso anche il nostro sfigato topo d’appartamenti, ma che, ritirandosi, lo ha poi costretto in galera? Il nostro immaginario fa fatica a pensare a una casualità imprevedibile, e si bea di un frame riconosciuto: il malavitoso tatuato, il tatuaggio come segno di identificazione, l’apprendistato tegumentario in prigione, il polpaccio al posto del viso, come dire la trasgressione dans tous ses états.
Ma dobbiamo rassegnarci a vederla diversamente, e capire che il ladro, quasi sicuramente, è stato catturato non per essersi sottoposto a un oscuro rito iniziatico ma per aver ceduto alle sirene, ormai senza voce, della voga arrivata in provincia, al trickle down della tendenza che, eclissandosi, si spande alla periferia dell’impero, là dove lui usava fare, da parecchio tempo, il secondo mestiere più antico del mondo: quello del ladruncolo recidivo.
Di solito, a proposito dell’ironico confondersi delle assiologie – etica, estetica, religiosa, sessuale, politica… – nella liquidità sociale che dovrebbe contraddistinguerci, si cita il caso delle ragazzine occidentali metropolitane che si fanno tatuare il lobo alla maniera delle antiche donne indiane, ignorando il fatto che quel segno lì, nel contesto d’origine, era indicatore di sottomissione al marito: altro che ornamento estetico più o meno sexy. Come dire, perdita del senso e assunzione blasé del significante fine a se stesso. Ma se mettiamo per una volta da canto l’origine, e guardiamo piuttosto al filo d’erba che sta in mezzo fra le radici e il fiore, la questione può assumere un tono in primo luogo quantitativo: i portatori di tatuaggio sono uno su dieci in Europa, Italia compresa, uno su quattro in Nuova Zelanda e Canada – ossia in paesi che vengono definiti del primo mondo, quello sedicente civilizzato. Altro che esotici samoani – involontari ideatori del termine – o gladiatori in catene dell’età che fu.
Altro che segno maledetto d’infamia o marchio dell’eroe mitico. Se tutto è immagine, simulacro, visibilità esteriore, come si dice da troppo tempo, è innanzitutto il corpo a esporsi come tale, mettersi in vetrina, un corpo che si presta a essere supporto di un’immagine qualsiasi purché ce ne sia una o, meglio, ce ne siano tante accatastate alla rinfusa, in un sincretismo culturale imbarazzante, con un bricolage di simboli tutt’affatto individuale, intimo, segreto: da esibire comunque alla bisogna. È l’invenzione della tradizione ad hoc. Da qui le profonde analogie fra il mondo del tatuaggio e le pratiche di street art, dove scrivere e fregiare il corpo proprio sembra essere omologo allo scrivere e inzaccherare il corpo della città.
La prima considerazione che se ne ricava è che tutto ciò sembra fare sistema, ma in termini d’opposizione più che di complementarietà, con quell’universo del post-umano, della perdita di fisicità, di smaterializzazione ultratecnologica che si dice caratterizzi il nostro presente: più flussi di informazione presunta pura circolano nelle autostrade virtuali, più si risponde con corpi istoriati, feriti, cicatrizzati, fonte di dolori inenarrabili di cui pure si racconta di tutto e di più. Perduto il senso dei grandi riti antropologici di iniziazione (fra primitivi e selvaggi, marinai, carcerati e altri tipacci virili d’ogni forma e natura), ecco tanti minuscoli riti di passaggio – giovanili e non – dove l’azione del tatuatore e la pazienza del tatuato si configurano comunque come prove eroiche, degne appunto d’essere rivendicate e raccontate. Ognuno è logo di se stesso, dal calciatore al cantante, dalla pornostar allo strafatto di periferia, dall’influencer superfigo al palestrato della porta accanto.
In secondo luogo, al di là delle prevedibili – e difatti previste – riappropriazioni di queste pratiche basse da parte del mondo del marketing e della società dei consumi, che le rilanciano ai propri fini commerciali, si pone il problema del tipo di estetica che con tutto ciò viene a crearsi o, forse, a ricrearsi. Da una parte le creazioni della moda, che sanno giocare molto bene il gioco dell’esibizione e del nascondimento, del vedere e dell’intravedere, nonché le procedure di artificazione da parte di musei e gallerie, cataloghi di body art e performance spesso irrisorie e violente. Dall’altra la rinascita del Kitsch, mai sparito del resto nella paccottiglia turistica e religiosa, che si trova adesso raddoppiato nelle innumerevoli pin up, cuori sacri, dragoni, armature, damine, orologi, stelle e strisce, uccellacci e uccellini, spirali e triangoli, merletti e infiorescenze, grafemi e dentiere che troviamo stampigliati dappertutto su glutei e bicipiti, avambracci e polpacci, toraci e addominali, colli e mani, giù giù sino a seni e genitali d’ogni sesso e sembianza.
Infine, ma giusto per fermarsi a riflettere, se e come coniugare queste pratiche antropologiche che qualcuno (forse frettolosamente) ha chiamato neotribali, di possibile ispirazione animista, con lo spalmarsi euforico del naturalismo nei nostri saperi umanistici e non?
Appare chiaro una volta di più come nella cultura contemporanea si intreccino quelle che alcuni antropologi chiamano diverse ‘ontologie’, ossia diversi modi di concepire la nostra relazione con la realtà, ivi compreso il nostro corpo. Al naturalismo, che impregna il senso comune oltre che i saperi istituzionali, si sovrappongono credenze e rituali che non lo sono affatto, e che sembrano rimandare a culture animiste solo apparentemente dimenticate. Lo sa bene il nostro ladruncolo, vittima inconsapevole di questa sorta di internaturalità: la polizia ha ragionato in termini scientifici, ma lui s’era istoriato di confusi simboli di tutt’altro stile di pensiero. E l’ha pagata.
Questo articolo è la sintesi della relazione introduttiva al convegno “Iconologie del tatuaggio. Scritture del corpo e oscillazioni identitarie” che si tiene a Palermo l’1 e il 2 dicembre prossimi. Sono previste una cinquantina di relazioni di semiologi, antropologi, esperti d’arte e di immagine, studiosi di letteratura e di folklore provenienti da mezzo mondo (dal Brasile alla Russia, dagli Stati Uniti alla Germania). Qui tutte le informazioni.