Omaggio a Kenzaburō Ōe

10 Aprile 2023

Il 3 marzo è morto Kenzaburō Ōe. Il suo spirito, come gli anziani del suo villaggio dell’isola di Shikoku credono da tempo immemorabile, se ne sarà di sicuro tornato ai piedi di uno degli alberi della foresta. Ōe lo ha ripetuto molte volte nei suoi romanzi e perfino in una delle sue rare poesie:

Una delle leggende della foresta dello Shikoku
si chiama “Il nostro albero”. La leggenda racconta
che ogni persona che vive e muore nella valle
possiede un suo albero.
Quando qualcuno muore la sua anima se ne vola in cielo per posarsi ai piedi di un albero.
Poi, trascorso un certo tempo,
discende a valle
per entrare nel cuore di un nascituro,
ai piedi del suo albero.
Se un bambino lo desidera con tutte le sue forze,
può (a volte) vedere da vicino
il vecchio che un giorno diventerà. 

Immagino il piccolo e curioso Ōe uscire di casa scalzo a cercare nella foresta il suo albero ai cui piedi poteva incontrare il vecchio che sarebbe diventato. E poi immagino il vecchio e indomito Ōe che con un “salto mortale” supera le soglie della vita per diventare parte di quella foresta che in fondo non ha mai abbandonato. O che ha abbandonato solo per averne nostalgia, sentimento senza il quale non è possibile nessuna rigenerazione, nessuna rinascita, e perciò nessuna vera opera d’arte. Ōe, malgrado tutto, pensava che la nostra morte non è la morte di tutto. Per comprendere la vita di un uomo, affermava, è necessario disegnare una carta che non si accontenti di partire dalla sua nascita, ma che risalga nel tempo più in là ancora e che non si fermi neppure al giorno della sua morte, ma si estenda al di là di essa. La venuta di un uomo al mondo, in altre parole, non dovrebbe poi ridursi solo alla sua nascita e alla sua morte. Egli nasce “nella grande ombra delle persone che lo circondano e, anche dopo la morte, ci dovrebbe essere qualcosa che sussiste” (M/T e la storia delle meraviglie della foresta, 1986). Mi viene in mente una riflessione di Elias Canetti, uno fra i tanti autori occidentali frequentati con amore da Ōe: “L’uomo deve imparare a essere in modo cosciente molti uomini e riuscire a tenerli insieme tutti”. Vedo all’improvviso un sentiero di montagna – in Giappone o in Svizzera? – dove due uomini, forse un padre e un figlio, o un maestro e il suo discepolo, o forse due fratelli (sono certo solo che uno dei due è più anziano dell’altro) si incrociano all’altezza di un grande albero e si salutano. Mi dico: ecco l’Oriente e l’Occidente di Ōe..

La mia iniziazione alle opere di Kenzaburō Ōe, avvenuta tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, poco prima che gli assegnassero nel 1994 il premio Nobel per la letteratura, si manifestò in modo davvero insolito sotto il segno dell’innocenza, una parola chiave del vocabolario del romanziere giapponese. Vivevo a Parigi. Un giorno entrai in una libreria come al solito privo di un vero scopo. Mentre stavo gironzolando tra gli scaffali alla ricerca di un titolo che mi ispirasse, mi sentii prendere la mano da una mano molto più piccola. Mi voltai, abbassai lo sguardo e vidi una bambina giapponese, probabilmente sfuggita alle attenzioni dei genitori. Senza dire una parola e stringendo più forte la mia mano mi fece girare un po’ in tondo e poi con calma mi accompagnò (non saprei quale altro verbo utilizzare!) saltellando fino a uno scaffale con impressa un’enorme lettera O. Vi ricordate quando, verso la fine del suo discorso di accettazione a Stoccolma, Ōe Kenzaburō ritornando su suo figlio Hikari, afflitto fin dalla nascita da un grave handicap disse: “La parola innocente è composta da in e da noceo e significa colui che è incapace di ferire?”. Ōe, grazie al figlio Hikari, non ha potuto mai disfarsi, né da adulto né da vecchio, dell’innocenza. Per questo, da romanziere, ha dovuto, come ha scritto una volta Auden “soffrire in silenzio tutti i mali del mondo”. Soffrire senza ferire, patire conservando lo stupore infantile, catalizzando nella sua persona il dolore del mondo; e da questo patire, da questo dolore, trarre la forza immaginativa per creare. Ma perché questa forza non diventasse distruttiva o autodistruttiva, perché fosse contenuta entro i limiti di un’opera, Ōe ha avuto bisogno di un “mediatore”, Hikari, suo figlio, il cui innocente patire ha sempre avuto il potere di guarirlo, cioè di fargli comprendere in ogni istante qual era il suo posto nel mondo.

Nel 2005 ero a Tokyo ed ebbi la fortuna di incontrare Kenzaburō Ōe. Nel dialogo che ne seguì, l’autore di Un’esperienza personale (1964) sintetizzò così il suo “metodo”: 

Il mio procedimento formale più importante è la “ripetizione contenente delle variazioni”. L’ho stabilito in quasi cinquant’anni di vita letteraria. Lo utilizzo costantemente: dalla concezione generale del romanzo ai minimi dettagli, fino all’immagine apparentemente più banale, fino all’uso di certe metafore [...] La mia stessa visione della Storia e dell’uomo si basa su questo paradigma. 

L’arte della composizione di Ōe si illumina ancora di più solo se non dimentichiamo che l’albero del romanzo dell’autore di Il grido silenzioso (1967) e Gli anni della nostalgia (1987) affonda le sue radici nella poesia in almeno tre modi che si possono così riassumere:
– La parola poetica è concepita dall’autore come una parola assoluta sulla vita degli uomini, sul mondo terreno e su ciò che lo trascende
– Il romanzo, la cui parola prosastica è consustanziale all’imperfezione umana, è costruito come un commento alle molte citazioni poetiche (Dante, Yeats, Eliot, Auden)
– Il codice di identificazione dei personaggi del romanzo è racchiuso nella loro relazione con la poesia (l’azione del personaggio può imitare l’azione poetica o prefigurarla) e in particolare con alcuni versi. 

La tecnica della prosa, inoltre, imita quella poetica (e musicale): “la ripetizione” con “variazioni" (da intendersi anche in senso retorico come accumulazione progressiva di elementi). E ciò a tutti i livelli: dalla concezione generale del romanzo ai minimi dettagli, ovvero dall’uso della singola metafora alla costruzione dei motivi e dei temi. La stessa metafora (ad esempio, l’albero), ripetendosi con leggere variazioni dà vita a un motivo (l’albero della foresta ai cui piedi lo spirito di ogni morto del villaggio ritorna), che, ripetendosi a sua volta con leggere variazioni, forma un tema (la nostalgia per la visione della vita e della morte secondo le leggende del villaggio della foresta). Ciò ha ripercussioni sulla struttura temporale del romanzo, che si basa su una memoria ricorrente (del narratore) che ritorna attraverso “ripetizioni” e “variazioni” su alcuni episodi. Questi ultimi assumono la funzione di versi o strofe e diventano oggetto di continui commenti.

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Ne risulta una visione della Storia e dell’uomo concepita come un’eterna iniziazione o eterna rigenerazione, dove le cose si ripetono in diverse epoche, ma non per questo in ciascuna epoca appaiono ai personaggi sempre le stesse. Lo stesso identico gesto, ad esempio, può essere “ripetuto” da personaggi diversi a distanza di anni o di secoli senza che questo cancelli mai l’illusione di novità in chi lo compie e in chi, come il lettore, lo vede compiersi. C’è un altro aspetto che caratterizza con continuità l’opera romanzesco di Ōe. Sin dagli anni sessanta del secolo scorso e fino alle ultime opere – penso a Il salto mortale (1999), a Il bambino scambiato (2000), a La vergine eterna (2007) e a La foresta d’acqua (2009), l’autore ha sempre praticato quel che in giapponese si chiama watakushi shosetsu, una forma romanzesca nata durante l’era Meiji (1852-1912), dove le avventure personali del protagonista riflettono gli avvenimenti realmente vissuti dall’autore che, di solito, narra in prima persona. Ho detto una volta, e non me ne pento, che i giapponesi hanno scoperto più di un secolo fa quel che in Francia e un po’ dovunque da tre decenni chiamiamo autofiction. Esiste tuttavia una differenza. La loro prospettiva era completamente diversa rispetto alla nostra: laggiù, sotto l’influenza del realismo e del modernismo occidentali, si desiderava imporre per la prima volta la voce di un individuo concreto e una lingua prossima alla vita quotidiana, mentre da noi i romanzieri, perduta ogni fiducia nell’arte di sondare l’esistenza attraverso i personaggi, hanno pensato bene di piazzare se stessi al centro dell’arena romanzesca come ultimi bastioni della “verità individuale”. Così facendo, hanno aumentato l’inquinamento narcisistico del nostro mondo. Cosa che non è avvenuta in Giappone, dove la nozione di individuo, dopo più di un secolo di watakushi shosetsu, è ancora un problema. In L’eco del paradiso (1989), ad esempio, c’è un dialogo – tra Marie, la protagonista, e K., lo scrittore suo amico e voce narrante – all’interno del quale a un certo punto quest’ultimo afferma che nei suoi romanzi “il mondo viene utilizzato come un medium”: è questo che fa del romanzo stesso “un’arte incarnata”. A mio parere qui inizia e finisce l’eterna querelle su rapporto tra realtà e finzione. Non ci si deve stupire se Ōe sfrutta in quest’opera, come in molte altre, la sua biografia – l’essere scrittore, sposato, con un figlio disabile – come una delle tante possibilità (che cos’è il romanzo se non la festa del possibile? Perché, poi, leggere romanzi se non credessimo possibile un’altra vita?) per narrare le sue storie. Come K. dirà alla fine: “Io ho scritto un romanzo sulla vita di Kuraki Marie, come fosse una mia storia, al pari di tutte le altre”. Che importanza ha che K. coincida in molti aspetti con il premio Nobel Ōe e che Marie sia davvero esistita? Il romanzo non è un medium, ma fa del mondo un suo medium: una volta entrati, Ōe si incarna in K., che a sua volta si incarna in Marie. E anche noi lettori ci incarniamo in lei, così come in tutti gli altri personaggi. 

***

Tra il 2011 e il 2013 mi ritrovai ancora una volta a Tokyo ad insegnare a un gruppo di giovani giapponesi la lingua italiana. In realtà erano piuttosto preparati. Perciò il divertimento era sempre maggiore alla fatica, sebbene alcuni di loro di tanto in tanto si addormentassero ripiegando come cigni il collo e il capo sui banchi colpiti da un’improvvisa letargia. La cosa all’inizio mi sorprese, ma poi ci feci il callo. La vita a Tokyo è davvero stressante e i giapponesi possono addormentarsi dovunque: nei metrò, a scuola, nei taxi, sulle scale di una stazione, o sul pianerottolo di casa dopo un turno di lavoro di dodici ore. Un giorno mentre me ne stavo sotto un ciliegio in fiore, un collega e pittore mi si avvicinò e mi disse: “Sai che i giapponesi sono lotofagi? Mangiano le radici del loto”. “In questo caso – ribattei – è il popolo più saggio della terra: dimentica tutto”. “Non saprei – mi rispose un po’ perplesso. Forse preferiscono vivere nel mondo fluttuante dell’eterno presente…”. “Ne sei sicuro? – domandai. Non hanno forse vissuto la fine del mondo da molto vicino? Hiroshima, Nagasaki...”. Ero stato ad Hiroshima. Perché? Perché a Hiroshima tutto è finito e tutto è cominciato. Dopo Hiroshima, l’uomo ha toccato con mano il potere della sua cospirazione contro la vita. Ha constatato che è fatto della stessa impalpabile sostanza delle ombre, come quella che ancor oggi è impressa su un muro in rovina della città. L’uomo non è niente – pensai – non è che un’ombra: eccone la prova! Il viaggio a Hiroshima mi riportò a Ōe e al nostro dialogo del 2005. “L’uomo che rivolge uno sguardo troppo lucido sulle prospettive di una situazione estrema non ha altra via di scampo che la disperazione. Soltanto colui che, grazie a una visione smussata, considera tale situazione unicamente come uno degli aspetti della vita quotidiana, è in grado di lottare contro di essa”. La citazione si trova nelle Note su Hiroshima (1965). In queste parole traspare “l’umanista combattente” e allievo di Watanabe Kazuo, traduttore di Rabelais, che gli ripeteva spesso: “Siamo condannati a scomparire, certo, ma scompariremo resistendo!”. Nella sua opera, tuttavia, oltre a tale “visione smussata” che ci permette senza disperare di far fronte a una situazione estrema, c’è posto anche per quella cecità che consente agli individui di restare in contatto con il mistero dell’universo. “L’importanza di possedere una visione smussata delle cose – affermò Ōe nel nostro dialogo – l’ho appresa leggendo le riflessioni riportate dai medici che per primi prestarono soccorso alle vittime delle radiazioni dopo lo scoppio della bomba atomica. Ho anche imparato che al fondo di tale miopia si trova una chiaroveggenza straordinariamente vitale”. La mia speranza è che lo spirito di Ōe se ne voli in cielo, discenda a valle ed entri nel cuore di tutti i nascituri per posarsi poi ai piedi di tutti i loro alberi. Ho la sensazione che solo così l’umanità potrà scoprire al fondo della sua miopia quella cecità chiaroveggente in grado di farla sentire, finalmente, solo una parte del mistero universale.

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