Claudio Piersanti, “La forza di gravità” / La ghigliottina e l’arte della fuga

16 Dicembre 2018

Claudio Piersanti si autodefinisce «un vecchio orso solitario», ma a conoscerlo e parlarci insieme non si può evitare di esserne affascinati. È un narratore di razza, sia che racconti dei gruppi anarchici che frequentava in gioventù, sia che riveli le misteriose alchimie che legano ricercatori e topi di laboratorio. Sornione, con una parola in più o in meno può farti ridere a crepapelle, oppure lasciarti sconcertato e inorridito: il più delle volte, tutt’e tre le cose insieme. Sembra che possieda un repertorio inesauribile di storie, aneddoti, personaggi. Tantissimi, per un orso solitario. «È il vantaggio di aver sessantaquattro anni invece di trenta: se hai vissuto più a lungo, hai più cose da raccontare».

 

Anche per questo è stata una piacevole sorpresa, per me, ritrovare quel tono nel suo ultimo romanzo, La forza di gravità (Feltrinelli 2018, pp. 297, euro 18,00), apparso in libreria all’inizio dell’estate senza troppo clamore. Dario Posatore, professore di filosofia in pensione, dà lezioni di vita e di pensiero scientifico a Serena, diciottenne desiderosa di accedere, dopo la maturità ottenuta da privatista, alla facoltà di medicina. «Quando un uomo ha avuto l’esistenza che ho avuto io non deve raccontarla. A un certo punto della mia vita ho capito che diverse persone credevano che mi inventassi tutto. Così ho stabilito che non valeva affatto la pena raccontarmi e ho risolto il problema. Il passato non mi interessa. Io sono il suo risultato». In un brano come questo (è il Professore che parla) ritrovo lo stesso passo sicuro, la stessa sprezzatura che contraddistinguono la conversazione del suo autore. Piersanti, azzarderei, parla come scrive (o viceversa): di quanti scrittori italiani contemporanei si può dire lo stesso?

Classificare questo romanzo, invece, è un po’ meno facile. «Il romanzo è una straordinaria invenzione perché è una non-invenzione», ha spiegato l’autore in una bella intervista a cura di Eva Van de Wiele, recentemente apparsa su “L’Indice”: «È una forma che ogni volta dev’essere reinventata… Ogni libro ha la sua scrittura, ogni volta uso un timbro leggermente diverso». 

 

Cominciamo allora col dire che cosa questo libro non è. Non è un romanzo autobiografico, per esempio. Certo, nel delineare la figura del Professore, l’autore ha messo indubbiamente qualcosa di se stesso, dai trascorsi anarchici, all’indole un po’ nomade, all’interesse per i temi scientifici (per un decennio Piersanti ha diretto, da giornalista, una rivista di neurobiologia). Ma questo forse dipende dal fatto che uno scrittore, come ha spiegato Piersanti nella stessa intervista, «è una creatura mimetica». Lui si definisce invece «uno scrittore d’invenzione», che scrive «senza scalette» e garantisce ai propri personaggi un ampio margine d’autonomia. Oltretutto, il suo ipotetico alter-ego non è il solo protagonista del libro. Prima di lui c’è Serena, che matura da ragazza in donna senza che quasi il lettore se ne accorga (il trattamento del tempo è uno degli aspetti più interessanti del romanzo), determinata a perseguire il proprio obiettivo a ogni costo, che è quello di diventare medico. 

 

Romanzo di formazione, dunque? Neanche questa mi sembra una definizione calzante. È vero, c’è una ragazza che, attraverso una successione di esperienze e d’incontri, costruisce se stessa e la propria personalità (non a caso, a un certo punto della trama fa la sua comparsa una copia del Pinocchio di Collodi, quasi un espediente manierista, una mise en abyme del romanzo stesso). Ma accanto a lei, rovesciamento speculare, abbiamo un puer-senex destinato a diventare via via sempre più puer e sempre meno senex, in una sorta di regressione destinata a concludersi – letteralmente – con la sua dissoluzione. Nessuno dei due, però, è il protagonista assoluto. Anzi, se proprio dovessi indicare le parti meno convincenti del libro, direi che si tratta degli episodi che fanno perno sui singoli protagonisti. Per esempio, la relazione sentimentale fra Serena e il suo compagno di corso Vittorio, sulla quale aleggia un non so che di meccanico, da cui la scrittura non riesce fino in fondo a liberarsi. Oppure, sull’altro versante, il “volo” finale del Professore fra i boschi, in cui l’impeto visionario rischia di rompere il delicato equilibrio del romanzo, trasformando la poesia in poeticismo. Al contrario, dove La forza di gravità prende corpo e sostanza è proprio nel continuo dialogo fra Serena e il Professore. A riprova di ciò, i due personaggi di contorno più riusciti, la misteriosa Maria Assenza e l’etereo e inafferrabile Ottavio Celeste (nomi parlanti quant’altri mai), costituiscono per certi versi altrettanti “doppi” dei protagonisti – come se l’energia sprigionata dal loro rapporto fosse talmente intensa da riverberarsi tutt’intorno.

 

 

Né autobiografia, né romanzo di formazione, insomma. A voler trovare a tutti i costi una definizione, direi che La forza di gravità è un romanzo politico. Sui generis, ovviamente. Piersanti non fornisce alcun appiglio alla cronaca spicciola: la metropoli che fa da sfondo alla vicenda, per quanto identificabile con Roma (indizi sparsi qua e là sembrano indicare la zona di Monteverde Nuovo, dove lo scrittore ha trascorso molti anni), non è la stessa Roma dello sfascio amministrativo e del degrado urbano, che pure è presente nel libro in alcune intense pagine notturne.

A definire la dimensione politica del romanzo è semmai la “macchina infernale” che fa bella mostra di sé fin dalla copertina: la ghigliottina che il Professore costruisce nel salotto di casa sua, basandosi – precisa orgoglioso – «sull’originale francese», ma accogliendo «varianti tedesche e anglosassoni». Un oggetto-simbolo dei nostri tempi, in cui troppi s’impancano a giudici e boia, pronti a emettere sentenze capitali e mandare al patibolo questo o quello. «Così gli parlava quella creatura di legno e metallo: “Io sono la forma del tuo rancore. Non chiamarmi Giustizia perché sarò ingiusta come il rancore. Però ho una mia bellezza, non trovi?”. E dicendo così, la creatura si pavoneggiava, mostrando la dolcezza piallata e lucidata dov’era di legno e la resistenza all’uso dov’era di metallo ben forgiato…».

 

Macchina di morte, rappresentazione tangibile di una rabbia fuori controllo; ma anche macchina teatrale, barocca, addirittura opera d’arte (viene in mente un formidabile libretto firmato alcuni anni fa da Alberto Boatto, Della ghigliottina considerata una macchina celibe: mi domando se Piersanti lo conosca). Ribelle più che rivoluzionario, nel suo fantasticare il Professore confonde la politica con l’estetica: «Avevo già il permesso di montare un’opera d’arte nella piazza del Tribunale… Doveva essere il mio ultimo messaggio a questo popolo esangue. Mi sentivo in dovere di farlo… Volevo dare una chance a questi figli di puttana». Ma la ribellione del Professore, come quella di milioni di altri “figli di puttana” frustrati e insoddisfatti, non ha sbocchi, è celibe come la sua macchina: non potrà che ritorcersi contro di lui, in una sorta di piccolo auto da fé domestico. 

 

Fra le altre cose, La forza di gravità è anche il romanzo delle fughe, degli addii, del congedo definitivo. Non a caso, si apre con una dedica dell’autore a quattro amici (Claudia Degli Esposti, Carlo Mazzacurati, Roberto Bergamini, Roberto “Freak” Antoni) che non ci sono più; e si chiude con la partenza di Serena, ormai adulta, «verso città sconosciute» (è il titolo dell’ultimo capitolo). L’intera vicenda è attraversata da una continua tensione fra il movimento in avanti della protagonista e quello regressivo del Professore. Levità e pesantezza, istinto vitale e senso di caducità, dolcezza e ferocia. In questo senso, trovo che, nel suo complesso, La forza di gravità, come la ghigliottina silenziosa co-protagonista della vicenda, illustri molto bene le due anime della scrittura di Piersanti. Da una parte, quella di chi descrive i corpi e gli oggetti con pochi tocchi essenziali, “in levare”, come sfiorandoli con le parole; dall’altra quella materica, capace di farne “sentire”, talvolta dolorosamente, tutta la consistenza. 

Si potrebbero snocciolare riferimenti e paternità illustri (i primi due nomi che mi vengono in mente sono Celati, con cui l’autore ha avuto una lunga consuetudine amicale, e il Parise della maturità), ma sarebbe un esercizio inutile. Piersanti, l’ho detto all’inizio, assomiglia solo a Piersanti. Uno “scrittore per scrittori”, forse, più che per i lettori. Oppure, per dirla con parole sue, «un oggetto difficilmente collocabile», che non si lascia ingabbiare in una definizione. Proprio come questo romanzo. 

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