Damien Chazelle, “La La Land” / Un Minnelli azzoppato?

10 Febbraio 2017

In questo momento le acque sembrano essersi calmate un poco, ma per almeno un paio di settimane La La Land ha imperversato sulla mia homepage di Facebook e su quella di molti altri amici. Addirittura, in certi giorni la percezione – errata, ovviamente – era che non si parlasse d'altro. Sulle prime, i miei contatti – o i contatti dei miei contatti – si limitavano a normali manifestazioni di apprezzamento: qualche immagine tratta dal film, qualche video, brani della colonna sonora. Poi, nei giorni immediatamente successivi al debutto italiano (26 gennaio) e al concomitante annuncio delle candidature agli Oscar, hanno cominciato a fioccare non solo le prevedibili parodie, ma anche video-tributi in cui si comparano le sequenze di La La Land a quelle di Minnelli e Donen. Niente di strano, ma confesso che in questo caso la rapidità mi ha sorpreso.

 

Nello stesso frangente, ecco comparire, puntualissimi, gli haters: post e articoli, anche piuttosto lunghi, decisi a demolire il film, o quantomeno a ridimensionare l'entusiasmo dei fan. Si va dall'anziano cinephile che (cito testualmente) «a costo di sembrare irrimediabilmente rétro e babbionico», ricorre a un locus classico della retorica critica come quello dell'ordine cronologico (detta in breve: il vecchio è meglio del nuovo); per arrivare a certi “novi e novissimi” che adoperano il film come puro pretesto per una "satira di costume” la cui urgenza – ahimè! – evidentemente sfugge a coloro che, come il sottoscritto, non identificano Roma (e il Pigneto) con il mondo intero. Naturalmente non mancano poi le osservazioni occasionali, le battute, le sparate denigratorie o, al contrario, di elogio: tutti i cinefili si sentono in dovere di dire la propria («Cinefilo non parla di La La Land e gli viene assegnato un parere d'ufficio», ha titolato Lercio).  L'impressione è che, passata la buriana degli Oscar (La La Land ha ottenuto quattordici candidature, incluse quelle per le categorie maggiori: un record), avremo soltanto qualche mormorio e qualche amicizia virtuale in meno. E forse è un peccato, perché si tratta di un film che, al di là degli entusiasmi o dell'avversione incontrollata che sta suscitando, va compreso e (perché no?) anche apprezzato.  

 

Damien Chazelle con Emma Stone sul set. 

 

Rivendendo La La Land al cinema, posso soltanto confermare quello che, a caldo, mi venne da scrivere proprio qui su Doppiozero, al momento della “prima” veneziana del film. Piaccia o non piaccia, nessuno potrà negare che Damien Chazelle sia riuscito a eludere abilmente tutti coloro che lo aspettavano al varco dopo il grande successo della sua opera seconda, Whiplash (tre Oscar: miglior montaggio, sonoro e attore non protagonista). Così come non può non colpire l'affinità tra i due film. Da un certo punto di vista, La La Land sembra quasi una variazione, con più musiche e più colori, sul medesimo tema: quello della ricerca tenace di un successo individuale che, in entrambi i film, passa soprattutto per la performance (musicale o attoriale).

 

Non solo: proprio come il batterista Andrew (Miles Teller) di Whiplash, anche i protagonisti di La La Land, il pianista Sebastian (Ryan Gosling) e l’aspirante attrice-autrice Mia (Emma Stone), finiscono per sacrificare ogni cosa al raggiungimento del proprio obiettivo. Lo dimostra la lunga e bella sequenza nel sottofinale: i due hanno ormai realizzato le proprie ambizioni (lui è riuscito ad aprire finalmente un locale di musica jazz, lei è diventata un’attrice di successo), ma ciò che cantano non è la riuscita del loro amore, bensì il suo fallimento, accompagnato dal relativo rimpianto di quel che avrebbe potuto accadere e non è accaduto. Certo, la posizione di Chazelle è ambivalente. Da un lato tesse le lodi dei dreamers e della foolishness, quanto mai attuali (“Stay foolish”: come non ricordare l'esortazione del guru di Cupertino?), tanto da essere scomodati nella tagline del film; dall'altro ne mette freddamente in scena le conseguenze – senza peraltro sentirsi in dovere di discutere l'individualismo esasperato che sogni e “follia” sottendono. E questo non tanto perché faccia film «per gonzi di destra» (come vorrebbe Goffredo Fofi col suo moralismo un tanto al click), quanto perché quello che più conta è, appunto, l'esibizione, l'esercizio più o meno virtuosistico. O, se vogliamo usare un altro termine ampiamente inflazionato, l'atto performativo

 

 

Pura esibizione è del resto l'ambiente in cui si svolge la vicenda: e non è un caso che le scene siano di David Wasco, già art director di Wes Anderson e del primo Tarantino, mentre i costumi siano di Mary Zophres, abituale collaboratrice dei fratelli Coen. La “Land” del titolo è un mondo da favola (“La La”), ove, nonostante il trascorrere delle stagioni, fa sempre bel tempo; ma è anche, evidentemente, L.A./Los Angeles, cioè Hollywood, cioè il luogo dell'immaginario per antonomasia (importante, nel film, è lo spazio della sala cinematografica). Dalla finestra di Casablanca al planetario di Gioventù bruciata, le strade e gli edifici  in cui si muovono i protagonisti sono essi stessi citazioni, sciorinate con la noncuranza del bravo studente di cinema. E se in tanti sono stati al gioco di Chazelle, gettandosi a caccia di riferimenti più o meno dichiarati (da Cantando sotto la pioggia a Spettacolo di varietà, fino a Les parapluies de Cherbourg di Demy; ma c'è spazio anche per un siparietto in cui Gosling, durante una festa decisamente fifties, coverizza Take on me degli a-ha, innescando una sorta mise en abîme della nostalgia), vale la pena invece riflettere su un’operazione che non intende nascondere i propri debiti, ma al contrario li rivendica con tanta spudoratezza (persino le dissolvenze del film sono citazioni).

 

Penso che abbia ragione Jonathan Rosenbaum nel mettere in luce «how desperate its euphoria is». La La Land, presentandosi come ricostruzione in vitro del cinema che fu, rivela, dietro la confezione sfolgorante un retrogusto vagamente funereo. Chazelle è troppo cinefilo e “teorico” per non saperlo, e difatti, nel momento stesso in cui ne traccia l'omaggio-ricalco, ribadisce l’impossibilità di rifare, oggi, quel cinema. L'incontro mancato nel bar all'inizio, il cellulare che squilla distruggendo l'atmosfera sospesa del numero musicale, la pellicola che prende fuoco in proiezione proprio nel momento in cui Mia e Sebastian stanno per scambiarsi il primo bacio: tutti momenti rivelatori, prese di distanza (ironica?) rispetto a un genere – il musical – che Chazelle vorrebbe prendere sul serio, ma senza riuscirvi fino in fondo. Non stupisce, a questo punto, che le critiche più dure e circostanziate che il film ha ricevuto riguardino il versante della colonna sonora. Il problema, tuttavia, non è tanto se le musiche di Justin Hurwitz siano memorabili oppure no: l'altroieri si diceva la stessa cosa del Chicago di Rob Marshall, poi divenuto un cult. (Anche se le osservazioni di Stefano Zenni, musicologo e storico del jazz, per quanto durissime, debbono semmai far riflettere sull'impreparazione musicale di tanti critici cinematografici). È che non è più il tempo dell'ironia autorial-postmoderna di un Woody Allen e del suo Tutti dicono I love you. Era il 1996: oggi, la naïveté con cui Chazelle guida i suoi interpreti suona talvolta come uno stratagemma per nasconderne le manchevolezze.

 

Proprio facendo riferimento alle scarse doti tersicoree di Gosling e della Stone, un amico ha  salacemente definito il film “un Minnelli azzoppato” (ma mi sembra che troppi glorificatori della Golden Age abbiano dimenticato la Natalie Wood doppiata di West Side Story o, peggio, la Hayworth di Fascino, assolutamente negata). In realtà, La La Land, con tutte le sue (finte) ingenuità e le astuzie (vere), la sua superficie coloratissima e il fondo cupo per non dire macabro, è il musical che ci meritiamo, all'altezza (alla bassezza?) dei nostri tempi: forse più consapevoli, sicuramente molto meno leggiadri. Insomma, azzoppati.

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