La Biennale Teatro di Venezia
Aperta dal Leone d’oro a Romeo Castellucci, “per la sua capacità di creare un nuovo linguaggio scenico in cui si mescolano il teatro, la musica e le arti plastiche”, per il suo aver creato spettacoli-sogno e aver scrutato, cum figuris, negli incubi, in attesa dell’esploratrice dell’orrore di vivere Angelica Liddell, Leone d’argento, la Biennale Teatro di Venezia nella sua fase inziale è attestata saldamente sulla drammaturgia internazionale.
Premiazione Leoni: Baratta, Castellucci, Liddell, Rigola
I nomi della tranche iniziale di una rassegna collocata dal direttore artistico, lo spagnolo Àlex Rigola, nei primi giorni agosto - tra torme di turisti asfissiati dall’afa in ciabatte, short, o braghettoni, in una Venezia resa ancora più irreale dal caldo umido e penetrante - sono quelli di registi, spesso anche autori e interpreti, che raccontano il mondo con la vecchia arte della parola, classica o contemporanea, di variazione su un tema dato o d’invenzione. Si va a teatro dalle 19 (a parte la sciagurata idea di qualche recita alle 15, all’Arsenale, raggiungibile o sotto il solleone della Riva degli Schiavoni o muovendosi nei labirinti di Castello fittissimi di turisti in cerca di qualsiasi refrigerio). Due o tre spettacoli al giorno, sopportabile. Ma l’anima di questo festival, e quello che giustifica in parte la scelta del periodo, sono i molti laboratori, affidati ai migliori nomi della scena internazionale, a radunare (anche) un pubblico sicuro per gli spettacoli di circa trecento partecipanti, in molti casi attori o aspiranti tali, che in altre zone dell’anno avrebbero maggiori difficoltà ad accorrere qui.
El policia de las ratas
I topi di Bolaño
Lo stesso direttore ha aperto la rassegna con la prima di un suo spettacolo basato su un racconto di Roberto Bolaño, prodotto col suo teatro Lliure di Barcellona e con altre sigle. Rigola è un fedelissimo dello scrittore cileno: portò a teatro, qualche anno fa, il ciclopico 2666. Del romanzo più conosciuto di questo autore di culto El polícia de las ratas contiene l’andamento allusivo, stratigrafico, sviluppantesi per meandri. L’allestimento è semplicissimo: due attori che raccontano, a altrettanti microfoni, davanti a un gigantesco cadavere di ratto e a una sacca di sangue che cola lentamente fino a formare una larga pozza. Ispirato, ironicamente, alla Josephine di Kafka, porta tra cunicoli e fogne, in un mondo di topi disciplinati e ben organizzati che faticano la vita pacifici, e che all’improvviso, con l’apparizione di un misterioso serial-killer, scoprono la violenza, la devianza e il desiderio, l’impossibilità di essere sempre soltanto truppa. Senza brividi teatrali ma con stringente, intensa recitazione, tutto è affidato al testo e a una forma di sublime sottrazione degli attori, che assecondano le volute di un racconto avvolgente, rapinoso, misterioso, come i testi del grande cileno.
Gran Obra di David Espinosa
Puppenspiele
Le mattine riservano una sorpresa che scarta dall’impostazione di parola. Mi Gran Obra di David Espinosa si inserisce con cattiveria in un filone catalano di teatro degli oggetti, con sguardi a forme più antiche e circensi di rappresentazione popolare. Intorno a un banco da lavoro sono ammessi pochi spettatori, dotati di binocoli per osservare scene formate soltanto accumulando minuscoli pupazzi di plastica, con accompagnamenti sonori e musicali. Espinosa ricrea un mondo, prima con qualche ingannevole arcadismo, seguendo l’essere umano dalla nascita alla felicità dell’amore, al matrimonio, alla vecchiaia; poi con sempre maggiore crudeltà ribaltando in un caos di incidenti, violenze e passioni l’aria sornionamente sorridente e circense, giocando pure con vari stereotipi della “spagnolità”.
Si va verso la variazione dei classici con l’Ubu Roi in francese dell’irlandese Declan Donnellan e con Nella tempesta dei Motus. Il primo è una divertente, ben recitata, ambientazione del famoso testo di Jarry come sogno o deliro di distruzione di un giovane nei confronti dei borghesi parenti e amici dei parenti intenti a una borghesissima cena. Le trovate non mancano, ma dopo pochi minuti il meccanismo si ripete sempre uguale, senza aggiungere nulla al testo, anzi portandolo verso l’inoffensiva piacevolezza dei classici che paventava Brecht.
Ubu roi regia di Declan Donellan
Il discorso su Nella tempesta dei Motus, parte dell’Animale Politico Project è diverso e più complesso. Baluginando sotto coperte, Ariel, Calibano e altri personaggi rievocano e discutono il famoso testo shakespeariano per aprire domande politiche sulle tempeste delle crisi, dei flussi di persone sradicate dalle loro terre che arrivano oggi a bordo di squassati barconi. Si parla dell’isola di Prospero, della Lampedusa degli sbarchi e di Cuba disfatta dal ciclone Sandy. Si evoca Judith Malina e il suo “non proteggersi dalle tempeste” e si chiede in continuazione: “cos’è la tempesta per te”. Si sogna un’isola nuova, di libertà, contro lo strapotere dei Prospero E la tempesta diventa anche quello che ognuno può fare o non fare, le scelte di vita e politiche. Il tutto non aggiunge molto al testo di Shakespeare e neppure ai problemi che ci agitano, elencati qui più che affrontati (e questo è un vecchio problema del teatro politico, tanto che Marco Martinelli, più o meno 25 anni fa, invocava un “teatro politttttttico, con 7 t”). Il finale, dopo varie evoluzioni sul tema, aumenta i dubbi: gli attori chiamano il pubblico a una presa di posizione, a indossare ognuno una coperta e prendere posto sul palco per lasciare l’osservatorio “immobile” di spettatore e andare là, con loro, per agire. Sembra una chiamata al risveglio come in Paradise Now del Living Theatre. Ma qui si crea solo una bella immagine di naufraghi, e poi tutto finisce, da copione tra gli applausi. Certo, fuori ci sono dei foglietti dove ognuno può scrivere come vorrebbe cambiare il mondo: ma mi sembra, sinceramente, un po’ poco. I Motus erano molto bravi a dare un’immagine da specchio deformante (e rivelante) dei nostri tempi con un loro teatro volutamente immaginale e bidimensionale, come le algide figure glamour di una rivista di moda. Scarnificavano il problema del tempo, la mancanza di profondità, di molteplicità dimensioni. In questa fase politica mi sembra lo facciano meno, e in modo consolatorio, adagiandosi sull’entusiasmo che comunque eccitano in giovani spettatori che non chiederebbero altro che potere, veramente, fare qualcosa. La politica nostra è già fin troppo bidimensionale, sloganistica, e avrebbe bisogno piuttosto di qualche esplorazione speleologica, che qui non c’è, e che a teatro, probabilmente, poco può esserci.
L’argentino Claudio Tolcachir scrive invece una commedia surreale e stazzonata su materiali dei nostri (e i loro, argentini) tempi di crisi. El viento en un violín racconta di un figlio attaccato alla casa materna, senza arte né parte nella Grande Crisi, e di due ragazze lesbiche che vogliono un figlio. Trait d’union, nella scena affastellata di ambienti quasi sovrapposti, la madre di una delle due innamorate che fa da cameriera presso gli altri. Tra parodie psicanalitiche, risvolti divertenti e virate surreali la storia si colloca nel solco del teatro popolare e nella sua versione aggiornata della telenovela, con un finale che prospetta nuovi confini alla famiglia, nuovi sentimenti. Niente di memorabile: un’opera “garbata”, si sarebbe detto una volta, con qualche trasgressione da filodrammatica di livello.
Lascio da parte gli Shakespeare raccontati in prima persona da personaggi secondari riscritti da Tim Crouch, messi in scena da Fabrizo Arcuri e dall’Accademia degli Artefatti. Di Io Banquo e Io Fiordipisello ha riferito su “doppiozero”, in altra occasione, Roberta Ferraresi; a essi si sono aggiunti a Venezia Io Cinna e lo studio Io Calibano.
Nella Tempesta, Motus. Ph. di Andrea Gallo
Piccoli inferni quotidiani: Lauwers
Pur rimanendo nella drammaturgia narrativa, ma tutta fatta di frammenti e depistaggi, un’altra marcia ha Marketplace 76 del fiammingo Jan Lauwers e della sua Needcomapny. Anche questa è una compagine celebrata internazionalmente, che rappresenta una delle vette di un teatro, quello belga, che annovera maestri della contaminazione come Alain Platel, Wim Vandekeybus, Jan Fabre, per citare solo quelli dotati di marchio più riconosciuto. Qui siamo in una piccola Mahagonny o Dogville, un villaggio orange (come le tute dei netturbini, che assumono un ruolo sempre più importante nell’avanzare dell’azione) la cui quotidianità è stata segnata da una tragedia: l’esplosione di una bombola che ha fatto 24 morti. Si sta per ricordare l’anniversario del fatto luttuoso, e tra prove di microfoni che non vanno e sparano rumoracci, canzoni ritmate, danze, monologhi al microfono, si rivela il lato oscuro, segreto, di questa piccola comunità trasformata dagli innesti, dalle immigrazioni. Tra una primavera e la fine dell’inverno si riveleranno solitudini, disperazioni, abusi sessuali nelle catacombe di una fontana “dell’amore” che ha smesso di funzionare. Tutto il rimosso, nascosto nelle case o nei cuori, sarà riversato nella piazza dove si incrociano i diversi destini. Il ritmo è avvolgente, i suicidi e le scelleratezze celate nelle pieghe della normalità si susseguono, con i morti che rimangono in scena, sulle spalle dei vivi, trasformati in scheletri grotteschi o semplicemente imbiaccati, a esigere i loro tributi, mentre si infoltisce la tribù degli spazzini, segnati da qualche stigma, da qualche segno di differenza inconciliabile. Si passa dai toni della moralità medievale ai grandi affreschi alla Bosch carichi di particolari e di ripetizioni, a un surrealismo belga dove le palandrane nere e le bombette alla Magritte sono state sostituite da tute fosforescenti e abiti da ipermercato, con bravi padri di famiglia che sequestrano e stuprano, madri che si dichiarano puttane, un concerto sullo sfondo di un palco zattera pieno di pesci salvagente di plastica, confessioni strazianti e nevicate che tutto coprono, anche la voglia di morire di chi immobilizzato su una sedie a rotelle sa di non potere più avere quella merce rara che è l’amore. La piccola comunità viene scorticata.
El viento en un violin regia di Claudio Tolcachir
Il tormento e la pietà: Bernhard e Lupa
Si affonda ancora di più nella crudeltà della famiglia con il gioco di specchi vorticoso di Ritter Dene Voss di Thomas Bernhard del 1984 (1986 la prima rappresentazione), allestito da un maestro acclarato quale il polacco Krystian Lupa, tanto amante dell’autore austriaco da aver sfidato con la scena romanzi come La fornace e soprattutto il diluviale Estinzione (oltre all’altra testo teatrale Immanuel Kant). La pièce prende il nome dai suoi primi interpreti, tre famosi attori tedeschi, che si trasformano in due sorelle attrici più o meno fallite e in un fratello filosofo ricoverato in manicomio, un Ludwig in cura da un dottor Frege. La sovrapposizione con Wittgenstein è evidente e mescolata con suo nipote, amico dell’autore austriaco, protagonista di un suo famoso romanzo e ricoverato nell’ospedale psichiatrico dello Steinhof. Siamo dalle parti dell’impossibilità di definire una realtà sfuggente, opprimente, inferno che noi stessi ci creiamo. “Rifugiarci nel teatro / non ci è servito a nulla / alla fine è solo una messinscena” dice Ritter, la più giovane e la più inquieta delle due sorelle, rese dal regista comunque due vecchie, una segaligna, nervosa, attaccata alla bottiglia, l’altra, Dene, con un’aria più paciosa e familiare (ma naturalmente ogni rovesciamento sarà possibile). Siamo in un interno borghese, con quadri di famiglia e preziose suppellettili, e con una pendola che scandisce, inesorabile, il tempo. Le due sorelle aspettano il fratello, per il quale Dene ha ottenuto una “libera uscita” dall’ospedale. L’arrivo, tra pause di forte intensità drammatica, silenzi, vaniloqui, sottintesi, scatti improvvisi, porterà alla luce, in un crescendo di trattenuta violenza, che solo a tratti esplode, la trama di oppressioni e fallimenti. Voss/Ludwig nega le arti rappresentative, il teatro e la pittura delle sorelle e dei aprenti ritratti alle pareti grazie ai denari di famiglia; si rifugia, con proclami antikantiani lanciati dallo Steinhof, nella purezza astratta del pensiero filosofico e della matematica. E soprattutto non avrebbe mai voluto lasciare l’ospedale per tornare nel luogo di ogni repressione, antica e recente, lo spazio familiare, che violerà in scene di allucinata forza drammatica. Prima spostando i mobili e rompendo il vasellame; poi rovesciando, sotto le note della marcia funebre dell’Eroica di Beethoven, le effigi dei parenti, mettendo alle strette le diverse ipocrisie delle sorelle, per finire, nella cornice luminosa rossa che rende astratta tutta la scena, chiusa come una teca, per prendere il caffè con loro, in una rappacificazione rassegnata che somiglia a certi desolati finali di Cechov. Lupa e i suoi splendidi attori aggiungono all’urticante testo del grande nichilista austriaco una nota in più di stupore tradito dal mondo, e condiscono il tormento con una toccante pennellata di umana pietà. Un capolavoro, sulla cresta dell’onda in Europa da svariati anni; salutato al teatro Goldoni, dopo più di tre ore di recita, da una vera e propria ovazione.
Banquo. Ph. di Andrea Corbetta
Dall’osservatorio di questa Biennale sembra che il teatro oggi riesca a parlare del mondo principalmente attraverso un’alta drammaturgia di parola, impastata in classici rivisitati, in giganti del novecento, in scritture nuove che si aprono al contributo delle altre arti. La scelta varia, perfino eclettica, a tutto campo di spettacoli, si concentra in un’antologia di buone produzioni internazionali già accreditate, puntando altresì sulla trasmissione dai maestri agli allievi tramite i numerosi, molto partecipati, workshop. Non scommette troppo sulla produzione, sulla sollecitazione di nuove, impreviste energie, in un momento in cui ce ne sarebbe un gran bisogno (ed è una Biennale esclusivamente di quarantenni e cinquantenni, con qualche punta di età più alta, e non di ventenni o trentenni). Gli altri festival vivacchiano, senza risorse. La Biennale, che più risorse ha, si dedica, in fondo, alle retrospettive. Forse sarebbe l’ora che il teatro e il pubblico decidessero di rischiare, per prefigurare un futuro che sembra assolutamente avvolto nella nebbia.
Ritter Dene Voss. Ph. di M. Gardulski
Il Festival continua fino all’11, con spettacoli molto attesi come quelli di Angelica Liddell (l’8) e di Thomas Ostermeier (il 10) e con le dimostrazioni dei workshop. Si può seguire giornalmente tramite “La tempesta”, giornale quotidiano scritto dagli allievi del laboratorio di critica teatrale condotto da Andrea Porcheddu.