Cosa occorre per ridere? / Per un'etica della buccia di banana

29 Agosto 2017

 

 

"Per ridere di qualcosa occorre: 1) sapere di che cosa stai ridendo; 2) sapere perché stai ridendo; 3) domandare a qualcuno perché pensano tu stia ridendo; 4) buttare giù qualche appunto; 5) ridere". (Robert Benchley, Why we laugh – Or do we?, “New Yorker”, 2 gennaio 1937)

 

Chiunque abbia dedicato del tempo allo studio dei meccanismi del comico, sa bene quanto sia un compito difficile, faticoso e – diciamolo pure – di una noia mortale. La comicità sembra refrattaria all'analisi: per quanto uno la sottoponga al più minuzioso degli esami, per quanto si riempiano pagine e pagine di appunti (altro che le “few notes” si cui parla Robert Benchley), non esiste microscopio tanto potente da rivelarne il mistero. C'è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa d'inspiegabile che rimane lì, sulla punta della lingua, e rifiuta di tradursi in un discorso compiuto.

 

La comicità non ha molto a che fare con la teoria. È un sapere pratico, quindi? Secondo Stan Laurel, che di queste cose se ne intendeva, in un certo senso è così. «Un amico», dichiarò in un'occasione, «mi domandò una volta che cosa fosse la comicità. Caddi dalle nuvole. Che cos'è la comicità? Io non lo so. Qualcuno lo sa? La potete definire? Quello che so io, è quello che ho imparato per fare ridere, e questo è tutto quello che conosco a proposito della comicità».

 

Saggia risposta, quasi socratica nel suo “sapere-di-non-sapere” – anche se dubito che Laurel avesse mai letto Platone. Tanto meno presumo conoscesse Henri Bergson, che con il suo saggio Il riso è stato uno dei pochi a tentare (riuscendovi) l'elaborazione di una teoria del comico. Com'è noto, la tesi su cui poggia il discorso bergsoniano è che la comicità scaturisce quando il vivente rivela ai nostri occhi un qualche cosa di artefatto, di meccanico, come se una mano invisibile ne controllasse i movimenti contro la sua volontà. Fra gli esempi portati dal filosofo francese ce n'è almeno uno familiare a tutti, quello dell'uomo che, correndo per la strada, all'improvviso inciampa in un ostacolo e rovina per terra suscitando l'ilarità dei passanti. «Non si riderebbe di lui, penso, se si potesse supporre che d'un tratto gli sia venuta voglia di sedersi per terra», osserva Bergson. «Non è dunque il brusco cambiamento di attitudine che fa ridere, ma quel che di involontario vi è nel cambiamento».

 



 

 

L'uomo che cade, l'uomo che inciampa, che scivola su una buccia di banana è la situazione comica per antonomasia, la più semplice, la più “pura” oseremmo dire (e non a caso una buccia di banana campeggia orgogliosamente sul vessillo festivaliero de Il senso del ridicolo). Eppure abbiamo visto quanto può essere complesso il meccanismo da cui nasce la risata. Ma non è finita. Prendiamo la prima delle cinque regole elencate da Benchley: «to know what you are laughing at», sapere di che cosa si sta ridendo. Se davanti a un uomo che cade sulla buccia di banana chiunque si lascia andare a un sincero scoppio di risa, l'eco di quella risata sarà ben diversa, a seconda non solo della posizione di chi ride, ma anche della posizione di chi è fatto oggetto di derisione.

 

È banale ricordarlo, ma è sempre più facile ridere di qualcun altro che di se stessi. Un assunto condensato icasticamente (e crudelmente) nella battuta di un altro illustre “addetto ai lavori” come Mel Brooks: «Tragedia è quando io mi taglio un dito. Comicità è quando tu cadi in un tombino aperto e muori». La risata nasce da una sorta di sublimazione della cattiveria nei confronti del prossimo, è una forma di aggressività a malapena mascherata. 

 

Esiste insomma una connessione piuttosto stretta fra il riso e la violenza. E questo ci porta a interrogarci sul contenuto “etico” del comico. Prendiamo Charlie Chaplin: in una delle sue comiche più famose, L'evaso (1917), Charlot riesce a sfuggire alla polizia che gli dà la caccia travestendosi da aristocratico. Sotto mentite spoglie, è accolto in una villa signorile durante un ricevimento. Una bella ragazza d'alto rango (Edna Purviance) lo invita a consumare un gelato insieme a lei sulla veranda. Ma l'ex forzato, poco avvezzo alle buone maniere, finisce per rovesciare la pallina di gelato nel patio sottostante, proprio nella scollatura dell'abito di una ricca e grassa matrona.

 

 

A proposito di questa scena, Chaplin osservava che il pubblico sembrava particolarmente gioire davanti alla disavventura della malcapitata signora. Al contrario, aggiungeva, se il gelato fosse caduto sul collo di una più modesta massaia (magari proprio una di quelle che sedevano davanti al grande schermo, nel buio della sala) la scena non avrebbe suscitato grande ilarità. Perché? «La massaia», spiegava Chaplin, «non ha nulla da perdere in fatto di dignità. Invece, se il gelato cade sul collo d'una riccona, il pubblico pensa che ben le sta, e che doveva accadere così». Tanto più alto è il rango dell'oltraggiato, tanto più è rovinosa la sua caduta, tanto più la scena risulterà comica. In questo caso, il comico attua una vera e propria rivalsa delle classi subalterne contro i detentori del potere. 

 

Il comico è dunque sempre intimamente sovversivo? Lo stesso Bergson riteneva vi fosse in esso «qualcosa di specificamente attentatorio alla vita sociale» (ragion per cui la risata suonerebbe come una sorta di “reazione difensiva” della società stessa). Ma che cosa succede quando – come in effetti spessissimo accade – l'arma del ridicolo viene esercitata dal più forte contro il più debole, dal carnefice nei confronti della vittima indifesa? Che cosa succede quando il riso viene adoperato per restaurare un ordine, invece che per sovvertirlo? 

 

Una risposta ci arriva da un tardo racconto di Luigi Pirandello, C'è qualcuno che ride. La situazione descritta dallo scrittore agrigentino è, come nel caso del film di Chaplin, quella di un ricevimento. L'atmosfera dovrebbe essere allegra (si tratta di una mascherata di carnevale), ma tutto, dagli invitati all'orchestra agli arredi, sembra far pensare piuttosto a una veglia funebre. Ad un tratto, scrive Pirandello, «serpeggia una voce in mezzo alla riunione: “C'è  qualcuno che ride”». La risata spontanea, insensata, anarchica, urta i lugubri invitati, suona come un attentato inaccettabile alle loro pretese di serietà: «Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l'esempio, se tutto quest'incubo frana d'improvviso in una risata generale, addio ogni cosa!». La risata appartiene a un invitato che nessuno sembra conoscere, «una faccia beata in cui il naso gli ride più della bocca, e gli occhi più della bocca e del naso, e gli ride il mento e gli ride la fronte, gli ridono perfino le orecchie». È la versione pirandelliana dell'evaso travestito da gentiluomo che fa scivolare il gelato sul collo della signora elegante: l'eroe comico, in una parola, il non-integrato che denuncia, unicamente con la propria presenza, l'ottusa omologazione di tutti gli altri. 

 

 

Stavolta, però, gli “altri” non si lasciano sopraffare. «Chi è? Dov'è?», domandano inferociti, «Bisogna dargli la caccia, afferrarlo per il petto, sbatterlo al muro, domandargli perché ride e di chi ride». Nella descrizione di Pirandello l'insieme degli invitati assume rapidamente l'aspetto di una muta di linciatori: «Con melodrammatico passo di tenebrosa congiura, han deliberato di dare una punizione solenne e memorabile». E quale potrà mai essere questa punizione? «Una enorme sardonica risata di tutta la folla degli invitanti scoppia fracassante e rimbomba orribile più volte nella sala». I caporioni, i “signori” (a pensarci bene, pare una scena del Salò pasoliniano) si sono appropriati della forza destabilizzante del riso per utilizzarlo come strumento d'offesa contro chi voleva adoperarlo per mettere in discussione lo status quo.

 

«Il potere usa il ridicolo, il dileggio e lo sfottò per aumentare il conformismo generale. È una tecnica di oppressione», ha scritto molti anni più tardi Daniele Luttazzi: «il dileggio invita a prendere le distanze dalla vittima e a partecipare del divertimento sadico del violento». Il discorso è più attuale che mai: senza riandare con la memoria alla pornografia antisemita di uno Streicher o di un Telesio Interlandi, è sufficiente guardare all'Alt-Right statunitense e ai tristi epigoni di casa nostra.

 

Quante cose si celano dietro una semplice buccia di banana! Un po' troppe, forse? Può darsi. Tuttavia, può essere utile ogni tanto fermarsi un momento a riflettere sul perché si ride e soprattutto di che cosa. Ci si renderebbe conto che il comico, quello autentico, non rafforza mai le nostre convinzioni, ma getta sale sulle piaghe aperte del quotidiano; mette in discussione qualsiasi certezza che abbia una pretesa di incrollabilità; non arretra nemmeno davanti a ciò che sembra più scontato. Come nel caso, appunto, di una caduta sulla buccia di banana.

 

In uno dei suoi primi cortometraggi, The High Sign (1921), Buster Keaton mostra il villain mentre lascia cadere una buccia di banana. Subito dopo, entra in scena lui: «Quando il pubblico mi vede avvicinare, si aspetta che ci scivoli sopra. Ma io non scivolo, e passo proprio davanti alla macchina da presa». La scena si conclude con uno sberleffo (le due mani e i pollici incrociati sotto il naso: il segno di riconoscimento cui si riferisce il titolo). «Ve l'ho fatta!», sembra dirci Keaton. Ha ragione: il più ridicolo, stavolta, è lo spettatore.

 

Nota bibliografica. L'articolo di Robert Benchley citato in apertura è disponibile online sul sito del New Yorker. La dichiarazione di Stan Laurel è tratta da John McCabe, Mr. Laurel & Mr. Hardy (Museum Press Limited, Londra, 1961); è stata parzialmente tradotta in italiano da Marco Giusti nel suo Stan Laurel & Oliver Hardy (Il Castoro, Milano, 1997). Il riso di Henri Bergson è disponibile nell'edizione Rizzoli del 1991, più volte ristampata. La battuta di Mel Brooks proviene da un disco realizzato nel 1960 in coppia con il futuro regista Carl Reiner, The 2,000 Years Old Man (and sequels). I commenti di Chaplin su L'evaso provengono da un articolo apparso nel 1917 su American Magazine; lo si può trovare tradotto in italiano nella biografia di David Robinson, Chaplin. La vita e l'arte (Marsilio, Venezia, 1987). Il racconto di Pirandello C'è qualcuno che ride è incluso nelle Novelle per un anno (Newton Compton, Roma, 2011). Il testo integrale di Mentana a Elm Street di Daniele Luttazzi è consultabile in pdf su Giap, il blog di Wu Ming, di cui si consiglia anche la lettura del post Internet, censure vere e finte, umori forcaioli e... quella sfigata di Anna Frank, inclusi i relativi commenti. La citazione finale di Buster Keaton è tratta dalla sua autobiografia, scritta a quattro mani con Charles Samuels, Memorie a rotta di collo (Feltrinelli, Milano, 1995).

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO