Nekrosius. Inferno e Purgatorio

23 Maggio 2012

Anche il genio dei maestri a volte latita. Questa è la prima sensazione davanti alla Divina Commedia di Eimuntas Nekrosius. Lo spettacolo che ha debuttato in prima mondiale al teatro Verdi di Brindisi sta al poema di Dante come To Rome with Love di Woody Allen sta alla complessità odierna di una città come Roma. Una cartolina innamorata e falsificante, una scelta degli episodi bizzarra per un lavoro con qualche momento d’incanto, come solo il regista lituano sa creare, e troppi altri decisamente insistiti, banali, al limite dell’ingenuità teatrale e interpretativa.

 

 

Lo spettacolo, una coproduzione della compagnia Meno Fortas innervata con giovani, ha debuttato in pompa magna nell’ambito di Puglia Showcase, una vetrina, organizzata dal Teatro Pubblico Pugliese, degli spettacoli prodotti in una delle poche regioni italiane che negli ultimi anni ha investito, in controtendenza con il resto del Paese, sulla cultura e sul teatro. La Regione Puglia ha promosso un capillare progetto di residenze che ha portato all’apertura di spazi in molte città, alla creazione di nuovi lavori, alla circuitazione, alla formazione di un pubblico. Un bell’impegno in direzione di una scena che sappia leggere nei confusi tempi che viviamo, nel quale bene si inscriveva una riscrittura del più famoso e sempre controverso poema nazionale per mano di un artista che ha saputo collegare il grande respiro della tradizione della regia del Novecento con uno sguardo trasfigurante, mai banalmente attuale, sulla realtà che ci scorre profondamente nelle vene.

 

 

All’inizio di questa Divina Commedia, nella scena nera disegnata da Marius Nekrosius, tra prevedibili fumi e note romantiche di un pianoforte, con un globo che sembra di pietra incombente per tutte le quattro le ore attraverso Inferno e Purgatorio (il Paradiso per ora non c’è), stanno Dante e Beatrice. Lui (Rolandas Kazlas) ha un camicione rosso e una zazzera bionda vagamente punk; lei (Ieva Triskauskaite) è sorridente e leggera in abito nero bordato di bianco. Vola, come un gabbiano. Davanti a una sedia incendiata da tanti lumini, salta leggera sul petto di lui, viene abbracciata, svanisce, col suo verso d’uccello. La storia che segue possiamo leggerla come un viaggio per cercarla, per ritrovarla, sprofondando in un inferno personale, in cui la strada verso la luce è impedita da tre animali-donne-vizio. Dove domina un senso di nostalgia per l’amore perso, appena lenito dall’incontro con Virgilio (Vaidas Vilius), che presto si trasforma da antico maestro in giovane amico, anche con qualche punta di gelosia tutte le volte che lei, la mai dimenticata Beatrice, riappare, col suo verso di volo e di mare.

 

 

E gli snodi dei tre atti sono storie d’amore. Quella di una Francesca che abbandona l’atto ripetuto di sottolineare il libro galeotto col suo Paolo utilizzando un lungo impacciante righello che li tiene a distanza per raccontarsi, gridarsi a Dante, abbracciandolo come se fosse il suo amato, con l’ansia di rimettere in scena l’amor bruciante. Quella di Gemma Donati, la moglie del poeta, in una Firenze in miniatura ricostruita alla spalle del poeta, mentre si evocano i ladroni che la abitano e la musica di Andrius Mamontovas sembra alludere a “Firenze è come un albero fiorito” del pucciniano e dantesco Gianni Schicchi. Nell’ultimo atto, un Purgatorio in cui le voci sono perse in cuffie ascoltate solo da teste senza fattezze di carta compressa, l’amore è Pia de Tolomei ed è un Italia “forosetta”, campagnola, che incarna, folkloristicamente, ingenuamente, inopportunamente, la “serva” “di dolore ostello”. Poi, quando tutti i penitenti hanno perso il volto dietro piatte mascherine di carta, e Virgilio è svanito, riappare Beatrice, in abito rosso, come la virtù che brucia, davanti al modellino del ponte vecchio, dove fu il primo incontro….

 

 

Una storia d’amore e di rimpianto? Sarebbe troppo ingenuo, anche se lo spettacolo altalena tra semplicismo e densità, tra lunghi pezzi affidati soprattutto ai versi (nella versione lituana di Aleksys Churginas, sovratitolata in italiano ), azioni mimiche riempitive, a volte stucchevoli, e improvvise, rare, folgorazioni. Nekrosius umanizza la storia, e un po’ si smarrisce nella nostalgia della scena primaria di questo amore. Il viaggio ultraterreno è un guardarsi indietro, un cercare di attaccarsi a ciò che si è perso. Un messaggero (il simpatico Paulius Markevicius), con una o due cassette della posta su una slitta e un berretto che sembra un mestolo (sarà una controfigura del Fonditore del Peer Gynt di Ibsen?) raccoglie posta per il mondo dei vivi dai trapassati. Lettere che cadono da una buchetta senza fondo. E porta cartoline delle città dove i condannati vissero le loro passioni, carta straccia che alla fine brucia in qualche gabbietta vuota d’uccelli, in un Purgatorio dai colori simili all’Inferno, che solo alla fine, prima dell’ultima apparizione di Beatrice, viene illuminato da un raggio di sole, quando Virgilio strappa via una quinta del teatro.

 

 

Percorrono i gironi e i cerchi che salgono figure ricorrenti come un papa-re col cappello di cartone, un diavolo che segna i cerchi, che confina, figure che sbattono contro un destino senza remissione, che nascondono i segni della sofferenza, le ferite, dimenandosi, sotto struggenti note di Cajkovskij, nell’ombra derelitti, dannati-quarto stato, o in primo piano esibendo bende che coprono stigmate, simili a poveri cristi. E poi rimane (siamo alla fine dell’Inferno), solo una distesa di triangoli a segnalare incidenti irrimediabili, macchine umane squassate abbandonate su una strada che finisce nel nulla.

 

E però lo spettacolo, appena decolla, subito si perde nel ghirigoro, nella trovata. La scelta degli episodi è personale, e quindi discutibile: non ascoltiamo alcuni dei passaggi più famosi e se ne sottolineano altri non centrali e forse inopportuni come quello dei tormenti dell’eresiarca Maometto. La pietà, l’amore alla fine sono la sostanza bruciante di questa rilettura, ma spersi in una tessitura illustrativa, didattica, con molti momenti facili e altri in cui l’invenzione folgorante, che ci ha fatto amare questo regista, latita.

 

 

Il grande sasso alla fine si apre, rivelando una luce rossa come il vestito di Beatrice: qualcosa che deve contagiare il mondo, per strapparlo al rumore metallico della spirale che dall’inizio più volte è apparsa, sospesa e spiaccicata per terra? Per dimostrare che anche le cose immote, come quel più piccolo ciottolo precipitato in altri momenti, usato per gli autografi dei grandi uomini del Limbo, anche le cose inanimate possono trovare un cuore? Nekrosius cerca, in questa Commedia, una cifra semplice, pura, essenziale, rimanendo molto al di sotto del poema e del mondo espressivo dei suoi densi, sulfurei Cechov e Shakespeare, quasi che la necessità di un prodotto di sicuro successo per il mercato internazionale ne abbia annacquato, addomesticato l’ispirazione.

 

 

Divina Commedia si può vedere a Modena, nell’ambito di Vie Scena Contemporanea Festival, sabato 26 e domenica 27.

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