Simboli / Storia della svastica

13 Dicembre 2020

Un’enorme svastica di pietra si innalza sulla cima di un grattacielo di New York: è una delle scene di The Man in the High Castle, una serie televisiva ispirata a un romanzo di Philip K. Dick (1962): la seconda guerra mondiale è finita, ma in un altro modo, e quelli che erano gli Stati Uniti sono occupati ora in parte dal Giappone, in parte dal Terzo Reich.

 

 

 

In quest’altra foto siamo ancora in America, ma non è più un film. È un raduno del German-American Bund nei pressi di New York, nel 1937. Anche la fotografia successiva non è fantasia: sono esponenti di questa formazione nazista nell’America degli anni Trenta.

 

 

In un caso e nell’altro – nella finzione e nella realtà – l’effetto è grande, perché "la svastica suscita sempre emozioni profonde". Lo sostiene Steven Heller nel suo Storia universale della svastica. Come un simbolo millenario è diventato emblema del male assoluto (DeA Planeta Libri). Heller non è il primo ad affrontare il tema: le ricerche sul motivo che in sanscrito era chiamato swastika erano iniziate già prima dell’avvento del Nazismo, per poi proseguire nei decenni successivi e anche in tempi recenti, come dimostra la bibliografia raccolta alla fine del volume. Il libro di Heller approfondisce soprattutto il versante grafico, ma ci offre anche una ricca sintesi che abbraccia la storia della svastica dalla preistoria agli inizi del Novecento e fino ai nostri giorni.

 

 

Per quanto riguarda il mondo antico, tanto grande è l’estensione nello spazio e nel tempo del segno dello swastika, che sarebbe quasi più facile dire quale cultura non l’ha mai adottato. Come ha scritto Silvia Ronchey, il motivo “dilaga in ogni ansa del labirinto della storia dell’iconografia globale”. Per rimanere nell’ambito del Mediterraneo, eccolo nel mondo greco arcaico, in quello etrusco, nelle culture italiche e a Roma, e giù fino all’arte a soggetto cristiano dei primi secoli, i mosaici bizantini e oltre. Ovunque si volti lo sguardo, allontanandoci verso Oriente e spingendoci verso epoche ancora più remote, la si incontra sempre, e su qualunque oggetto. 

Queste fittissime apparizioni imposero già alla fine dell’Ottocento (e impongono tuttora) la domanda sul senso del motivo: che cosa significava la svastica? Era un simbolo solare? Fonti antiche che ci diano indicazioni precise – come è prevedibile – non ci sono, e dobbiamo restare pur sempre nel campo delle congetture. Ma è così stringente la questione del significato? 

 

Bisogna ammettere che facciamo fatica ad accettare che certi pattern, all’interno della vita delle forme, abbiano avuto una funzione prevalentemente ornamentale. Il fatto è che la svastica ci appare oggi così densamente carica di senso (quello attribuitole appunto dai nazisti), che non riusciamo a immaginarne un’esistenza priva di significati. Millenni fa (ma anche oggi), i motivi decorativi venivano adottati per animare artisticamente un oggetto, un abito, un’immagine; l’artigiano o l’artista puntavano al piacere estetico del loro pubblico, senza escludere però possibili altri rimandi e valenze. L’impressionante diffusione geografica, l’eccezionale persistenza nella storia, la multiformità delle sue varianti fanno pensare che il segno dello swastika, oltre a possedere una straordinaria efficacia ornamentale, avesse anche una risonanza positiva e forse addirittura beneaugurante (di certo non ebbe mai quel tono aggressivo che assumerà dagli anni Trenta in poi).

 

 

Del resto, come spiegare altrimenti la sua presenza nell’immaginario occidentale anche tra fine Ottocento e inizi Novecento, ben prima cioè dell’avvento del Nazismo? Heller mette assieme un sorprendente repertorio di svastiche “buone” che, negli Stati Uniti, compaiono su avvisi pubblicitari di una compagnia ferroviaria, di prodotti alimentari, di una marca di birra; negli anni Dieci, un Girl’s Club pubblicava una rivista intitolata “The Swastika”; e poi, carte da gioco, cruciverba a forma di svastica, cartoline di auguri. Nel 1921, Baden-Powell, il fondatore dei Boy Scout, crea un distintivo a forma di svastica che definisce “ponte dell’amicizia”.

E poi arrivarono gli anni Trenta. In un impasto maleodorante di occultismo, esoterismo, e tendenze neopagane, mentre fioriscono sette segrete e ciarlatani si accreditano come seri studiosi, Hitler e la sua cerchia riescono a condensare nella svastica i presunti valori della tradizione germanica, il richiamo alla “razza ariana” e al suo destino di purificazione e dominio, l’odio antisemita. Ecco come la presenta lo stesso Hitler: “Soldati delle forze armate! La svastica sia per voi il simbolo della purezza e dell’unità della nazione, un emblema della Weltanschauung nazionalsocialista e una garanzia di libertà e potenza per il Reich” (p. 99). 

 

Questo reimpiego di un motivo antichissimo avviene dunque su due piani. Il primo è il tentativo di sottrarlo alla dimensione ornamentale costruendo su di esso, per così dire, un dossier spendibile dal punto di vista culturale. In altre parole, da motivo decorativo a simbolo. Come ha fatto notare Johann Chapoutot, lo storico Werner Müller scrisse un saggio – Kreis und Kreuz (1938) – sui motivi del cerchio e della croce, con l’obiettivo di dimostrare che l’uno e l’altro si fondevano nell’Hakenkreuz, la croce uncinata (così i nazisti vollero chiamare la svastica); essa si rivestiva così, secondo Müller, delle simbologie (in primis quella cosmologica) che avevano caratterizzato i motivi della croce e del cerchio presso le comunità indogermaniche. Anche se infondata, questa costruzione funziona ugualmente poiché riesce a evocare scenari grandiosi e autorevoli. È un po’ quanto accaduto col cosiddetto saluto romano: il gesto è testimoniato in forme analoghe nella storia delle immagini, ma fascisti e nazisti lo saldano senza esitazione all’idea della Roma imperiale. C’è sempre un passato glorioso da riacquistare, il problema è quando lo si va a cercare nella bottega di un rigattiere.

 

 

Il riuso del segno dello swastika si realizza, come spiega Steven Heller, anche sul piano grafico. La scelta dei colori fu decisiva, ed è Hitler stesso a motivarla: “Il bianco non è un colore trascinante: è adatto a caste associazioni di fanciulle, non a travolgenti movimenti di un’epoca rivoluzionaria. [Anche il nero] non è abbastanza trascinante. Il bianco-azzurro, sebbene di mirabile effetto estetico, non andava, perché erano i colori di uno stato particolare e di una poco apprezzata tendenza politica a grettezze particolaristiche. […] [Nero, bianco e rosso], questa associazione di colori […] è l’accordo più radioso che esista” (p. 93).

Il risultato finale fu dunque una sorta di logo di estrema efficacia: un motivo antichissimo assumeva ora una forma grafica e un rilievo cromatico totalmente inediti, modernissimo agli occhi dei contemporanei. Eppure, nel successo del simbolo nazista va considerato anche l’apparato che fungeva da cornice; è vero che nelle manifestazioni pubbliche la svastica compare da sola, nera entro un cerchio bianco a sua volta su un campo rosso, ma altrettanto spesso la vediamo su vessilli e labari all’antica, accompagnata da cartigli e decorazioni tratti dal repertorio ornamentale classico. 

 

 

In particolare è frequente il triplice nesso svastica-corona di quercia-aquila ad ali spiegate, come nella cosiddetta Parteiadler (“aquila del partito”). La corona di quercia, infatti, riproduceva la corona civica, una delle più importanti onorificenze militari della Roma antica; a sua volta l’aquila, dal principato di Augusto in poi, ma anche nel medioevo e in età moderna, era stata ripetutamente adottata come simbolo del potere imperiale. In altre parole, il segno dello swastika viene confezionato in forma modernissima, ma è come incastonato in simboli appartenenti alla storia della tradizione classica. Del resto, quando nel 1941 i giornali annunciarono che “il drappo con la croce uncinata è stato issato sull’acropoli” di Atene, si chiuse un cerchio, e si rappresentò visivamente la saldatura tra la civiltà greco-romana e il nuovo corso della Germania. 

 

Questa combinazione per nulla banale di nuovo e antico fa sì che la svastica abbia una storia diversa da altri simboli politici del Novecento, a cominciare dal fascio littorio (è da esso che prese il nome il Fascismo). Nella Roma antica era il segno che permetteva di riconoscere i lictores, i funzionari che scortavano le magistrature; connesso com’era all’idea di potere dello Stato, appare più di una volta anche prima dell’“annessione” operata dal Fascismo, sul monumento ad Abraham Lincoln a Washington (1920), per fare solo un esempio. A differenza di quanto successe al segno dello swastika, la riconversione del fascio littorio non portò con sé una completa riformulazione grafica, tanto è vero che la forza comunicativa di quest’ultimo sembra essersi notevolmente smorzata dal Dopoguerra in poi.

Il contrario della sorte della svastica nazista. Cancellata immediatamente dai monumenti dopo la seconda guerra mondiale, ricompare periodicamente quando vengono insudiciate sinagoghe e cimiteri ebraici, o quando sfilano gruppi neonazisti. La parte finale del libro di Heller è particolarmente interessante perché parla degli innumerevoli casi in cui la svastica viene esposta e nascosta al medesimo tempo da parte di associazioni e simpatizzanti di estrema destra, dissimulata attraverso sottili variazioni. 

Un esempio, in Grecia, è il movimento “Alba dorata”. Ecco di nuovo la combinazione nero-bianco-rosso e, soprattutto, ecco la svastica che si intravvede sotto la forma dell’antico meandro (o “greca”), un motivo desunto dal repertorio decorativo della Grecia classica: il richiamo nazionalista si somma così all’evocazione dell’emblema nazista.

 

C’è una domanda che percorre tutto il saggio a cui né Heller, né altri possono rispondere: è possibile una redenzione della svastica? È stata un simbolo nazista (e in un certo senso lo è ancora), lo sarà per sempre? 

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