Ouka Leele. Nel nome di una stella colorata

22 Giugno 2022

Alcuni giorni fa mi è caduta sott’occhio una fotografia coloratissima e paradossale di Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan (fondatori della rivista Toiletpaper) seduti impettiti tra montagne di calcinacci altrettanto colorati. Incredibile, ho pensato, sembra un’immagine fatta dalla spagnola Ouka Leele! Peccato che subito dopo questo pensiero sia stata raggiunta, tramite Rai News 24, dalla triste notizia: “il 24 maggio 2022 è morta la fotografa Ouka Leele, icona della Movida madrileña. I colori caldi e vivacissimi delle sue immagini hanno segnato l’iconografia della rinascita culturale spagnola dopo la morte di Franco.” 

Che la notizia sia giunta fino in Italia la dice lunga su come questa autrice, qui pressoché sconosciuta nonostante i recenti e continui profluvi di mostre sulle donne fotografe, fosse ritenuta una autrice fondamentale in Spagna. Tanto per dare un’idea: nel 2005 il governo spagnolo le aveva attribuito il Premio Nazionale della Fotografia; ha esposto le sue opere presso prestigiose istituzioni spagnole come il Museo Reina Sofia e la Fondazione La Caixa di Madrid ma anche in numerose capitali quali Parigi, Londra, Berlino, Tokyo e New York. Nel 2019 il celebre festival Les Rencontres de la Photographie di Arles, aveva dedicato un’ampia mostra agli autori della Movida madrileña: La Movida. Chronique d’une agitation 1978-1988; Alberto García-Alix (1956), Ouka Leele (1957), Pablo Pérez-Mínguez (1946-2012) e Miguel Trillo (1953). E per quell’occasione le aveva fatto l’onore di usare una sua fotografia della famosa serie Peluquería (ovvero il “Parrucchiere”) del 1979 come immagine icona del festival. L’anno scorso il Festival Photo España di Madrid le aveva addirittura dedicato un’approfondita retrospettiva alla Sala Goya del Círculo de Belles Artes. 

Ma chi era questa “ignota” (in Italia) e famosissima autrice? Il suo vero nome era Bárbara Allende Gil de Biedma e proveniva da una famiglia benestante di Bilbao. Suo nonno era un pittore; suo zio Jaime Gil de Biedma un famoso poeta; suo padre un architetto (fu lui a regalarle la prima macchina fotografica): insomma proveniva da un ambiente artistico che non le pose nessun ostacolo quando decise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti e poi alla scuola di fotografia Photocentro di Madrid. Timida e discreta nonostante l’esuberanza colorata dei suoi lavori, si sentì subito a disagio nel firmare le sue opere con il vero nome, così iniziò a presentarsi come “Bárbara Sin Appellido” (Bárbara senza nome), poi “Bárbara Aaaaaaa”.

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Ma non era soddisfatta. Un giorno, davanti a un disegno dell’amico artista El Hortelano (il cui vero nome era José Alfonso Morera Ortiz) che raffigurava una costellazione di sua invenzione, lei scopre il nome di una stella immaginaria, “Ouka Leele”, e subito esclamò: «Éste, éste es el nombre. Me encanta». Nasce così lo pseudonimo Ouka Leele; e nasce un’autrice nel momento magico di una Spagna che, dopo la repressione e il letargo artistico, culturale e sociale della dittatura di Franco, vuole risorgere, tornare alla vita. Si aprono nuove gallerie, nuove riviste e con loro si sviluppa un movimento di giovani cineasti (tra cui Pedro Almodóvar), musicisti, scrittori, critici, giornalisti, pittori, scultori, fotografi... che costituiranno, con la loro spinta innovatrice e dissacrante, con il loro nuovo linguaggio artistico, quella che verrà chiamata appunto la Movida madrileña. Già nel 1982 uscirà l’importante rivista Lápiz e aprirà l’altrettanto importante Fiera Internazionale dell’Arte Contemporanea ARCO, ancora oggi un punto di riferimento per l’arte contemporanea internazionale. 

Nel 1925 Joan Miró realizzava una sua opera intitolata Photo. Ceci est le couleur de mes rěves, dove il colore dei suoi sogni risultava essere una colorata macchia blu, campeggiante sul foglio accanto a tali scritte. Mezzo secolo più tardi Ouka Leele colorerà il suo universo giocoso e immaginario servendosi della fotografia. «Prima creo l’immagine nella mia mente, poi scatto la foto. L’apparecchio fotografico mi permette di registrare le cose e le situazioni che ho creato in precedenza e mi serve come base per la pittura. Le mie opere sono una miscela di teatro, immaginazione, pittura e fotografia» – racconta l’autrice.

La sua tecnica consiste infatti nel creare lei stessa situazioni spiazzanti, un po’ assurde e un po’ surrealiste, fare uno scatto in bianco e nero e poi dipingere la fotografia con l’acquarello. Certo, la tradizione di dipingere le immagini è molto antica, basti pensare a quelle realizzate da Felice Beato in Giappone alla fine del periodo Edo, ma lì la pittura veniva usata per aggiungere realismo all’immagine, per farla apparire più naturale. Ouka Leele usa invece il colore al contrario: per dare un tocco ancora più assurdo e un po’ pop alle sue immagini. Così, nelle serie Peluquería del 1979-1980, che le diede una fama immediata, ritrae la sua tribù di amici e se stessa con in testa gli oggetti più folli, per poi colorare il tutto nel segno dell’allegria, della libertà, della fantasia.

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A un suo amico ficca in testa un gran polipo dai lunghi tentacoli che dipinge di rosso acceso; a un altro crea una chioma fatta di coltelli “al vento” giallo-arancione; quindi agghinda un’amica seriosa con un casco di limoni che le avvolgono la testa (e sarà questa la foto copertina del festival di Arles); mentre pesci rossi-arancio, arrotolati e trattenuti da orologi, compongono la nuova pettinatura di El Hortelano, suo grande amico. In una fotografia degli anni ‘80 li si vede presentarsi assieme a New York, lei con due brioches che le decorano la chioma, lui con una cravatta costituita da un bel pesce. «Non credo di fare qualcosa di stravagante, amo la libertà, amo che le persone siano libere di interpretare se stesse.

Un giorno mi sono presentata a una inaugurazione con un maialino in testa con le lampadine negli occhi e vestita con un abito che sembrava il mantice di una macchina fotografica. Ma non volevo essere stravagante... era arte nella vita!» – racconta in un’intervista. Del resto, lei si è sempre sentita vicina alle visioni altrettanto ludico-artistiche che Salvador Dalí trasformava in opere. E, a proposito di Dalí, una celebre immagine di Ouka Leele, El beso, 1980, mostra una coppia che “si bacia” rivelando chiostre di denti agguerriti, quasi a voler illustrare una frase di Dalí del suo libro Confesiones Inconfesables, quando parlando del suo primo bacio a Gala lui scrive: «I nostri denti sbattevano forte, come scudi in una battaglia». Qui trasgressivi sono i colori accesi, così come trasgressiva e assurda è tutta la scena, un po’ tipo seduta dal dentista, dove ciò che conta non è lo scatto fotografico ma il processo creativo. La particolarità del suo approccio consiste infatti nello spostare la fotografia dalla sua funzione considerata abituale – riprodurre la realtà – e usarla come disegno preparatorio per un dipinto. E in effetti i temi da lei sviluppati si riferiscono spesso al registro pittorico: ritratto, nudo, paesaggio, natura morta, scene di genere. Le regole della pittura classica vengono riappropriate al servizio di composizioni bizzarre e deliranti, esacerbate da una tavolozza sgargiante, tenera o satura, che provoca effetti stravaganti e propone inquadrature giocose.

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A volte qualche critico ha avvicinato il suo lavoro alla Pop Art, ma mentre gli artisti di quel movimento partivano dalle immagini dei mass media o dai nuovi oggetti dell’industria dei consumi (dalle lattine delle zuppe Campbell’s al detersivo Brillo di Andy Warhol) la nostra autrice usa solo oggetti della vita quotidiana e domestica dove, tra spaghetti, posate, bicchieri, ventilatori, frutta e pesci, al massimo salta fuori un disco in vinile o una semplice televisione, da piazzare nelle sue costruzioni sceniche irriverenti, dove s’intrecciano banalità e assurdo.

Tali costruzioni visive a volte abbondano di drappi sontuosi e vellutati in puro stile España, come quello usato per coprire una poltrona e ritrarre l’amico fotografo García Alix (1986) in posa mentre mostra un suo tatuaggio. Di nuovo un gran tendaggio rosso, un po’ teatrale, un po’ rimando alla pittura del passato, fa da cornice a una donna ipersorridente che a Madrid, sullo sfondo de La Gran Vía e della cupola del palazzo Metropóli, estrae da una scatola un’enorme bisteccona (Madrid, 1984) quasi fosse una sorta di Alice nel Paese della Meraviglie protesa a pubblicizzare Madrid a modo suo. Dietro alle sue immagini, dove è facile vedere una continuazione con il surrealismo, si individuano anche aspetti classici che rimandano alla pittura da lei molto amata, alla mitologia e alla poesia (per altro lei stessa scriveva anche poesie e creava disegni). In Retrato con jarrón (1982), una donna allibita, circonfusa da fiori e uccelli usciti inopinatamente dal vaso che le sta cadendo dalle mani, sembra far parte della scena ultracolorata di un film di Almodóvar.

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Mentre in altri lavori le sue immagini paiono scavare nella storia dell’arte o negli spazi che la coscienza non controlla, dove si avverte qualcosa di ossessionante, di ossessivo, di legato a quel senso di morte tipico della cultura spagnola della Controriforma. Nell’opera ¿Dónde vas amor mío, amor mío con el aire en un vaso y el mar en un vidrio? (1987), Ouka Leele riprende esplicitamente i versi di una poesia di Federico García Lorca per creare una natura morta dove l’acqua “del mare” scivola davvero su un vetro specchiante; ma qui l’amore scomparso è simboleggiato da un enorme e inquietante cuore di bue poggiato su un piatto. In Hasta que la muerte nos una (1988), due teschi, circonfusi di fiori, poggiano su un bel drappo bianco, mentre il titolo stesso sembra invece echeggiare quelle frasi ammonitrici sulla nostra caducità che spesso campeggiano negli ossari delle chiese cinquecentesche spagnole. 

A partire dagli anni Novanta, quando inizierà a sostituire la pittura ad acquerello con quella digitale, la maggior parte dei suoi lavori si concentreranno su composizioni del corpo femminile inserito in contesti di una natura idealizzata e immaginata, avvicinandosi così a opere che ricordano quelle dei Preraffaelliti, pur mantenendo una visione ravvicinata e con colori decisamente rielaborati. Ora che la “stella” Ouka Leele è scomparsa dalla costellazione dell’arte spagnola ci fa piacere ricordarla anche con una sua frase: «Sempre inizio i miei lavori come se fosse la prima volta e cercando di conservare lo sguardo puro dell'infanzia, quando nulla aveva ancora un nome. In fondo il mio modesto linguaggio artistico non è altro che il frutto dell’ammirazione che provo davanti alla Divina opera d'arte di cui facciamo parte». 

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