Prequel: le storie infinite
Quando finisce l’ultima stagione di una serie tv ci sentiamo in lutto per i personaggi perduti. Ma ora possiamo vedere quello che è successo prima.
Il popolo degli appassionati di serie tv, di complex tv scriveva Jason Mittell è un po’ diverso da quello degli appassionati di cinema. Quando apparirono soap opera e telenovelas alla televisione non c’era dubbio: scrittura, regia, scenografia non erano paragonabili alla cultura cinematografica. Ma dobbiamo cercare i primi semi dell’attuale sontuosa produzione seriale negli sceneggiati: pensiamo a quelli prodotti dalla BBC, e perché no, a quelli prodotti dalla RAI: lì l’intento “educativo” delle televisioni di Stato ritenne opportuno alzare il segno della qualità; spesso si trattava di produzioni che adattavano classici della letteratura.
Ancora oggi, se a scuola vogliamo integrare la lettura dell’Odissea con qualche immagine, niente è venuto dopo l’Odissea RAI del 1968, regia di Franco Rossi, non a caso ancora oggi visibile su RaiPlay, con la recentemente scomparsa Irene Papas tra le attrici protagoniste. Da quando il fan delle serie tv ha potuto guardare a testa alta un cinefilo? Dagli anni Novanta, in particolare da quando un guru del cinema come David Lynch scrisse e diresse Twin Peaks (1990-1991).
La biblioteca dello storytelling
Intanto, il maniaco di binge watching adesso, dopo Mittell, ha un nuovo professore universitario che dedica un libro alla sua passione: Gian Mario Anselmi insegna Letteratura Italiana all’Università di Bologna, e ha pubblicato White Mirror. Le serie tv nello specchio della letteratura (Salerno Editrice 2022). Anselmi è dei nostri: ha visto quasi tutto, cita quasi tutto (ma non Mittell) e vi sarà difficile non trovare la vostra narrazione preferita in una delle sue pagine. Se Mittell, studioso di mass media, fondava il suo concetto di complex tv sull’imponente squadrone di creativi che sta dietro a ogni titolo (come in un film), giustamente designando firma delle firme lo showrunner, Anselmi finalmente sdogana la completa dignità letteraria del genere. Una mia collega, docente di Inglese, mi confidava un po’ vergognosa che anche lei è appassionata di serie tv (sta guardando le ore e ore e ore di Better Call Saul, il prequel di Breaking Bad): «Non leggo più libri!» mi ha sussurrato con vergogna; e beh? l’ho consolata io: se lo guardi in lingua originale con i sottotitoli in inglese di fatto stai leggendo letteratura angloamericana!
Non ci sono forse personaggi, conflitti e risoluzioni di conflitti, dialoghi, pensieri, voci narranti come nei migliori romanzi? Il tempo che dedichiamo alla visione/lettura di Better Call Saul in cosa è poi così diverso dal tempo che dedichiamo alla lettura di un libro? Su questo Anselmi snobba i suoi colleghi snob e finalmente ci regala il timbro letterario: «Vogliamo da sempre sentirci raccontare storie. Lo vogliamo sin da bambini e lo vogliamo dalla notte dei tempi. Dalla notte dei tempi ci interessano tutte le storie e le storie fondano la nostra stessa natura di homo sapiens».
Hanno cominciato le religioni e le mitologie, a raccontare: μύθος, mito, in greco significava “racconto”, storytelling diremo oggi. Un paragrafo di Anselmi si intitola “L’infinito narrare che ci prende”: «L’inesauribile patrimonio delle letterature e del loro “gioco” ben si presta a un pubblico affamato di “storie lunghe” simili per molti versi ai pubblici dell’Ottocento in ansiosa attesa dei “romanzi a puntate” o “d’appendice”»; Balzac, Dumas, Dickens, Stevenson, Collodi, Carroll, Barrie hanno tutti scritto ancora dei loro personaggi perché sollecitati dal mercato dei lettori, spinti dal successo dei loro prodotti.
Tra cadaveri che camminano
The Walking Dead (AMC/Disney+), il morto che cammina: la serie di Frank Darabond tratta dai graphic novels di Robert Kirkman va avanti da undici stagioni, dieci puntate almeno per stagione; in autunno saranno trasmessi gli ultimi episodi: siamo a oltre 110 ore di narrazione, con almeno una decina di personaggi protagonisti. Parliamo di metaverso e di multiversi, ma che altro è se non uno spazio e un tempo in cui dimentichiamo i noi stessi reali un tale continente di storie? Dell’ultimo libro di Jonathan Gottschall (Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge. Bollati Boringhieri 2022) ha scritto Mario Barenghi qui su doppiozero.
Secondo Gottschall «la forza di Guerre Stellari è naturalmente un concetto puramente fittizio al centro di una religione fittizia. Al centro di un universo fittizio. Invece la forza della storia è reale. È un fenomeno naturale che può essere individuato e studiato scientificamente, proprio come qualsiasi altra forza naturale. Dell’elettromagnetismo ai terremoti. Oggi una vasta squadra di ricercatori, tra cui psicologi, specialisti della comunicazione, neuroscienziati e analisti letterari applica il metodo scientifico per studiare gli effetti delle storie sul cervello». Siamo addicted, tvseriesdipendenti, quindi?
Certamente, come lo è chi non molla il tabacco e la nicotina, il cioccolato, la cannabis e l’anandammide, lo smartphone e i cuoricini su Instagram per secernere un po’ di dopamina. Certamente, quindi ce ne droghiamo, ma è una droga che ci dà piacere e funziona come tutte le storie e i libri e i film del mondo: per un po’ di tempo ci trasporta in un altro mondo, e quando in questo torniamo il nostro cervello ha fatto quel passo di lato che è essenziale in qualsiasi apprendimento, lo scarto prossimale che ci accresce cognitivamente, prima del rientro alla linea retta del reale.
Il successo di una serie, la buona struttura narrativa, e soprattutto la forza di molti personaggi spinge oggi le produzioni a proporre anche un prima. Il tradizionale flashback diventa un gigantesco balzo all’indietro dell’orologio della storia: di quanti anni? Non è necessario dettagliarli. Andiamo in un altro tempo, spesso in altri spazi. Personaggi nuovi, nei primi episodi, poi, ad arte, ecco i nostri eroi; cosa erano prima? Come sono diventati quelli che abbiamo conosciuto dopo nel nostro tempo di spettatori e prima nella loro vita narrativa?
Fear The Walking Dead è partita nel 2015 abbastanza in sordina (ora è alla settima stagione), ma poi si è imposta come una strategia narrativa attraente: dopo qualche stagione i personaggi a noi conosciuti svoltano in filoni paralleli e sincronici alla storia-madre (crossover); alcuni big spariti nella main-story (come Rick Grimes) riappaiono dandoci speranza di rivederli ancora. Eccetera. Il “monaco marziale” Morgan Jones (lo interpreta Lennie James) giganteggia in Fear The Walking Dead (autore Dave Erickson, sempre dal soggetto di Kirkman, AMC/prima Prime Video perché lo vediamo passare dall’eremitaggio del poi al prima della leadership del «we can help».
Nel nostro cognitivo la luce del prequel cambia la memoria della main-story e ritrasforma a cascata la storia del personaggio. Il cuore di ogni narrazione, il magnete della nostra attenzione è proprio la trasformazione dei personaggi. Se la storia cambia loro, noi possiamo cambiare noi. L’invenzione letteraria diventa motivazione alla nostra trasformazione di soggetti apparentemente reali. In Fear The Walking Dead c’è l’inserzione del personaggio di Althea, che con la sua ossessione per le videointerviste e la costruzione di un archivio afferma che raccontare noi stessi, le nostre verità sia davvero l’unica umanità possibile in qualsiasi catastrofe planetaria possibile. Ora è in corso anche un sequel, di TWD, ovvero The Walking Dead World Beyond (AMC/Prime Video), dove protagonisti sono quattro adolescenti dieci anni dopo l’inizio della pandemia zombie, da loro chiamati “the empties”, i vuoti. E spin-off sono in cantiere.
Draghi, spade, nani ed elfi
Più tradizionali, nello storytelling, le due nuove costosissime produzioni fantasy: House of the Dragon (HBO/Sky) e The Rings of Power (Amazon Studios/Prime Video): vengono sceneggiati i tomi precedenti di Martin e Tolkien. Si tratta di lancette della storia arretrate di un paio di secoli in Martin, di ere fantastiche in Tolkien. Vediamo la storia di un’ava cavalcatrice di draghi della stirpe Targaryen, con i writers nostri contemporanei che piegano la scrittura trucida di Martin, pseudo cronaca di un Medioevo fantastico, violento e brutale, scavando per la protagonista Raenerys temi di ribellione adolescenziale e femminista. Così la giovane Galadriel, principessa guerriera degli Elfi, muove eserciti e alleanze, dando alle nostre ragazze 2022 un bel background motivazionale per prepararsi a governare il mondo cadente (scadente) dei maschi.
L’incredibile Saul
Secondo Jason Mittel Breaking Bad (2008-2013) è a oggi una delle più grandi serie tv mai prodotte. Grande mestiere dei writers, dei registi, degli attori protagonisti. La potente, efficace, sobria capacità di raccontare americana. Il prequel Better Call Saul (AMC/Netflix), firmato da Vince Gilligan (lo showrunner di Breaking Bad: conosce i suoi personaggi come le sue tasche) e Peter Gould, partì nel 2015, ed è finito poche settimane fa con l’ineffabile avvocato Jimmy McGill alias Saul Goodman (Bob Odenkirk) pronto ad altri incredibili casini nel tempo successivo di Breaking Bad. Anche qui qualche cameo crossover, con il professore di chimica Walter White (Bryan Cranston) malato di cancro incurabile ai suoi inizi di cuoco di metanfetamina eccellente per il boss di origini cilene Gus Fring (Giancarlo Esposito), ossessivo e zen. 63 ore in cui personaggi fortissimi hanno interazioni formidabili.
Mike Ehrmentraut (Jonathan Banks) è un ex-poliziotto corrotto che ha visto ammazzato l’onesto figlio poliziotto da colleghi corrotti: fatta la sua giustizia arrotonda alla grande la sua paga di custode del parcheggio della polizia locale diventando progressivamente l’uomo di ferro di Fring; ha un solo scopo, proteggere la nipotina e la nuora, rimediare ai suoi irrimediabili errori; è una maschera inalterabile, ha una intelligenza micidiale.
Chuck McGill (Michael McKean) è il principe del foro di Albuquerque, New Mexico, eccellenza in sapienza e moralità, ma è azzoppato da due problemi: la fobia per l’elettromagnetismo, a causa della quale si segrega in casa rovinando la sua carriera stellare; e il fratello minore, il debole, ostinato, pasticcione, testardo fratellino minore Jimmy, che lo accudisce quotidianamente e che altro non desidera che ottenere da Chuck stima e incoraggiamento. Saul/Jimmy è un Re Mida au contraire, un Re Merda che trasforma in disastro tutto quello che tocca. Un personaggio davvero incredibile, che ci fa arrabbiare e che perdoniamo senza scrupolo ogni volta.
Su Better Call Saul è pervasiva la luce fredda, autolesionista della fidanzata di Jimmy/Saul, l’avvocata Kim Wexler (Rhea Seehorn); figlia di una madre alcolista, chiusa in una ostinazione di riscatto che le fa scalare i più grandi studi della città, si lega a Jimmy/Saul in una co-dipendenza priva di buonsenso ma non di senso. Due disamati dai loro trasfert infantili, si saldano come due poli negativi che cercano il positivo, e che lo sciupano trovatolo, in una estenuante altalena di cadute e resilienze che spingono avanti sei stagioni. Saul non molla mai, Kim non lo molla mai. I soldi vanno o vengono, i lavori sono adrenalinici o miserabili. L’ottovolante sociale americano li centrifuga e il caos cinguetta con l’ordine.