Ugo Mulas alla Triennale
Nella prima sala della mostra ci sono le fotografie che Mulas ha scattato nei musei, a Berlino, a Mosca, in altre città, alla fine degli anni Cinquanta e inizio Sessanta. Guardava le persone – soprattutto i bambini e i ragazzi, poi quelli con la macchina fotografica in mano ma che non scattavano, o quelli che non guardano, alcuni addirittura appisolati, stanchi, e i gruppi anche – osservava il loro rapporto con le opere, il loro sguardo, la loro postura.
Non ho ceduto alla tentazione di paragonarlo alle foto di uguale soggetto di Luigi Ghirri e di Thomas Struth, o altri, come maliziosamente forse si vorrebbe insinuare, ma mi sono invece messo anch’io a guardare i visitatori della mostra intorno a me. Mi sono chiesto una sola cosa: Mettiamo che non conoscano Ugo Mulas, come probabilmente quella coppia di giapponesi o quei due che sembrano lì per caso (in fondo siamo alla Triennale e forse sono venuti per altre mostre di design o architettura), si accorgeranno di avere di fronte un grande fotografo? La mostra li convincerà che non è solo una documentazione di mostre, che è Mulas qua l’artista e le sue foto sono le opere?
Mi sono risposto di sì, la mostra funziona, e bene anche, senza cioè essere troppo didascalica né troppo celebrativa, anzi proprio perché la presenza di alcune “opere” tout court - come la Verifica, la terza, che apre la mostra - o serie - come la mirabile su Duchamp - o insomma le fotografie che non sono immediatamente riconducibili al tema delle “esposizioni” rivelano e convincono che c’è dell’altro, appunto. Soluzione facile? Non tanto, proprio perché non eclatante, non forzata, discreta, peraltro rispondente al carattere di Mulas, come forse avrebbe fatto lui stesso.
Così ci accorgiamo dell’arguzia di alcune foto che altrimenti guarderemmo diversamente, come la scultura appoggiata distesa sul piedistallo alla galleria Marlborough, con gioco spaziale di luci e ombre multiple, o il riflesso sul vetro del Mondrian nella casa del collezionista americano, o la bambina accanto a Giacometti alla Biennale di Venezia, o altro ancora. Invece che dettagli aneddotici, diventano “dei Mulas”, come i provini stampati per intero e diventati “opere”, in consonanza fotografica con le trasformazioni che Mulas non solo vedeva ma interpretava. Non è un problema di statuto della fotografia – documentazione o opera o che altro? – ma di atteggiamento: cosa stai facendo? A cosa miri? Come lo fai? Si vede? Sì, in Mulas si vedeva e si vede.
La questione non è marginale o peregrina. Era la posta in gioco di allora e il filo rosso stesso dei cambiamenti dei modi espositivi che queste foto riprendono e restituiscono. Dalle esposizioni come allestimenti di opere nelle stanze predisposte, gli “white cube”, si è giunti alle installazioni, passando per l’interazione con i luoghi, nelle cittadine scenografiche (Spoleto, 1962), e poi, per Mulas, per la diversa concezione dell’atelier e dunque del modo di lavorare-creare (in America, 1964-65); poi con le opere realizzate e consumate in pubblico e con performance, happening e simili, l’idea di opera veniva ripensata in toto (Campo urbano, 1969; Nouveaux Réalisme, Milano, 1970). E quella della fotografia, di conseguenza, pensa Mulas in diretta. E risponde con decisione: non solo documentazione, ma opera, anche quella apparentemente documentaria. In fondo, cioè, emerge in modo evidente quello che aveva sempre pensato, e fatto.
Ecco Vitalità del negativo (1970) di Ugo Mulas, potremmo dire, dove cioè Mulas acquista un ruolo attivo, di libero interprete. Mulas, infatti ,sta anche realizzando le sue Verifiche e la terza deriva proprio da una performance di quella mostra, la foto, dicevamo, esposta all’inizio di questa mostra. Il cerchio si chiude, e anche per noi, mi pare: è il cerchio di Mulas.
Ugo Mulas. Esposizioni | Dalle Biennali a Vitalità del Negativo
Mostra realizzata da Triennale di Milano in collaborazione con Johan&Levi.
A cura di Archivio Ugo Mulas e Giuliano Sergio.
14 giugno - 26 agosto 2012