Festival del Cinema 2016 / Diario veneziano
Ogni anno, sbarcando al Lido per la Mostra del Cinema, la sensazione è sempre quella d’immergersi lentamente in una sorta di “bolla”, un guscio protettivo che separa il festival dal resto del mondo. Qui, per almeno una decina di giorni, l’unica realtà possibile è la Mostra stessa: cinema, tappeti rossi, conferenze stampa (ma anche pranzi al sacco, bagni chimici, notti in tenda…). “Il nostro mondo è meno doloroso del mondo reale”, dice giustamente un personaggio di Nocturnal Animals, il non memorabile opus n.2 di Tom Ford presentato in concorso l’altroieri. Al Lido, infatti, la realtà trapela solo di quando in quando, e quasi sempre in forma ovattata. Per il resto, a rafforzare l’impressione di rassicurante immutabilità sono gli stessi luoghi, gli stessi orari, gli stessi amici.
Quest’anno le cose sembravano essere diverse, perlomeno a una prima occhiata. Gli ingressi della Mostra sono transennati e presidiati dalla polizia. Segno che gli allarmi del mondo di fuori trovano la loro eco anche qui, sebbene all’interno del festival i controlli agli ingressi delle varie sale siano rapidi e sommari come al solito. Anche la geografia della mostra è cambiata. Al posto del cratere che negli ultimi anni aveva ospitato, debitamente isolati, i resti di amianto emersi dai lavori di scavo per l’abortito nuovo Palazzo del Cinema, sorge invece un enorme parallelepipedo rosso nuovo di zecca, la sala Giardino: poco meno di quattrocentocinquanta posti destinati a ospitare proiezioni fuori concorso, restauri e incontri con ospiti e registi. L’idea sembra quella di portare al festival un pubblico se possibile ancora più vasto e non necessariamente cinefilo, in un’atmosfera festosa ed ecumenica, che inevitabilmente stride con poliziotti e posti di blocco.
E i film? In questi primi giorni, il concorso principale sembra improntato a una singolare forma di nostalgia, con opere dalla marcata impronta metadiscorsiva, quasi una recrudescenza del postmoderno anni ‘90. È il caso, in parte, anche di Wim Wenders, che ha presentato (in 3D) il suo ultimo Les beaux jours de Aranjuez, scritto dall’amico di vecchia data Peter Handke (che l’ha tratto da un proprio dramma teatrale). L’artista-creatore mette in scena un alter ego di se stesso nel momento in cui dà vita una pièce - un uomo e una donna dialogano in toni altamente poetici sui temi cari al regista - lasciandosi via via sopraffare dal mondo immaginario che ha generato. Il risultato, allo stesso tempo affascinante e didascalico, può suscitare diverse perplessità (che qualcuno, poco educatamente, ha pensato bene di esternare ridacchiando nel corso della proiezione stampa), ma che difficilmente lascia indifferenti. Coraggiosamente, Wenders si interroga ancora una volta sullo stato dell’immagine, cinematografica e non (ed ecco le ragioni, apparentemente oscure, del 3D): se anche si ripete, lo fa senza dubbio con grande intelligenza.
Anche Hollywood rifà se stessa, sotto forma di rivisitazioni, ricalchi e omaggi espliciti ai generi cinematografici del bel tempo che fu. I risultati sono alterni: se Derek Cianfrance, con The Light Between Oceans tenta di resuscitare il melò in modi tanto grossolani da non meritare nemmeno una parola di commento (semmai di stupore: com’è finito in concorso un film del genere?), ben più efficace è il Denis Villeneuve di Arrival, buon esempio di fantascienza “adulta” che parte da suggestioni kubrickiane (ovviamente, il monolite nero di 2001), per poi far evolvere il racconto in una direzione assolutamente personale e originale (sebbene non priva, soprattutto nel finale, di qualche salto mortale dello script).
Nello stesso solco di rivisitazione/nostalgia, il risultato più interessante lo ottiene Damien Chazelle che, con il musicale La La Land, riesce brillantemente a eludere quanti lo aspettavano al varco dopo il plurioscarizzato Whiplash. Anche in questo caso la vicenda, che ha per protagonisti il musicista Sebastian (Ryan Gosling) e l’aspirante attrice-autrice Mia (Emma Stone), ruota attorno ai temi dell’ambizione e del sacrificio (calvinista?) in nome del successo: un successo che passa prima di tutto per la performance, sia essa musicale o attoriale. Tuttavia, quello che colpisce maggiormente è l’aspetto eminentemente visivo del film (le scene, non a caso, sono di David Wasco, già art director per Wes Anderson, mentre i costumi sono di Mary Zophres, abituale collaboratrice dei fratelli Coen). Nulla c’è di nuovo, tutto è esplicitamente ricalcato, fin dai titoli di testa, sui poderosi musical in formato panoramico della Golden Age - da Cantando sotto la pioggia a Spettacolo di varietà: tanto che qualcuno l’ha definito, con velenosa arguzia, “un Minnelli azzoppato”, forse in riferimento alle scarse doti tersicoree dei due protagonisti. Chazelle compie un’operazione che non intende nascondere i propri debiti, ma al contrario li espone (starei per dire li rivendica) spudoratamente, con un’acribia che sa di necrofilia. Ed è proprio questo retrogusto vagamente funereo, di post-classico fuori tempo massimo, a costituire l’elemento di maggiore interesse di La La Land, oltre all’indubbio senso del ritmo e dello spettacolo: perché rivela consapevolmente l’impossibilità di realizzare oggi quel cinema. Lo dimostra la bella sequenza del sottofinale, nella quale i due protagonisti, che hanno ormai realizzato le proprie ambizioni (lui è riuscito ad aprire finalmente il proprio locale di musica jazz, lei è diventata un’attrice di successo), cantano non la riuscita del loro amore, ma il suo fallimento e il relativo rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
Altrettanto radicale è l’operazione di riscrittura (vampirizzazione?) messa in atto da François Ozon in Frantz, un lavoro che in molti hanno trovato nient’altro che un divertissement cinefilo, ma che si rivela progressivamente una non banale riflessione sulla Storia effettuata attraverso la storia del cinema. La prima parte del film è letteralmente ripresa - con una puntigliosità che può ricordare il Van Sant di Psycho (1998) – da un sottovalutato Lubitsch del 1932, Broken Lullaby (noto anche come The Man I Killed). Anche qui avremo dunque un reduce francese del Primo Conflitto Mondiale oppresso dai sensi di colpa, Adrien (Pierre Niney) che si reca a visitare la casa di Frantz Hoffmeister, un amico tedesco conosciuto a Parigi e trucidato al fronte insieme a milioni di coetanei. Ne conosce i genitori e la fidanzata (Paula Beer) e, quasi senza volerlo, finisce pian piano per assumerne il ruolo. Probabilmente è questo l’elemento che ha suscitato l’attenzione di Ozon, che già nel precedente Una nuova amica aveva affrontato il tema dell’elaborazione del lutto attraverso l’appropriazione dell’identità – anche sessuale – della persona defunta. Se in Frantz le implicazioni più profonde e ambigue della questione sono assai più sfumate, è soltanto perché il regista pare maggiormente interessato a un’altra dimensione della vicenda: quella della Storia, appunto, col suo pesante fardello di colpe e ferite mai sanate. Difatti, se il film di Lubitsch si concludeva con il ragazzo francese accolto nella nuova famiglia tedesca (un pio desiderio, alla vigilia dell’ascesa di Hitler), Ozon sa che il passato non è una pietanza facile da digerire, e fa partire a quel punto un altro film, il “suo”: il tema dello sdoppiamento, insomma, oltre a innervare l’intelaiatura tematica del film, viene riproposto a livello strutturale, con la promessa sposa di Frantz che si mette sulle tracce di Adrien, di fatto compiendo alla rovescia l’itinerario di scoperta-appropriazione dell’altro già effettuato da Adrien nella prima parte. Soltanto in questo modo il bianco e nero del film, espressione lampante di un passato carico di fantasmi (in primis lo stesso Frantz) che opprimono tutti quanti, potrà illuminarsi dei colori slavati dei dipinti di Manet, segno flagrante di una felicità possibile.