Accostamenti / Marconi VS De Carlo
La visita di Sanguine alla Fondazione Prada qualche mese fa mi aveva lasciato perplesso. Un artista considerato così acuto come Luc Tuymans mi è sembrato fiacco come curatore. Non ho letto il catalogo, che sicuramente approfondiva tutto, ma la guida all’esposizione e l’esposizione stessa mi sono apparsi generici e pretestuosi. Si tratta di accostamenti, di “montaggio”, di associazioni e slittamenti tra opere, tempi e luoghi di autori diversi. Ho pensato che forse è ora di reagire a un “warburghismo” che sta diventando di maniera, un alibi pretestuoso se non è preciso o almeno chiaro. Per carità, capisco tutte le ragioni della creatività e della libertà, ma per chi e per che cosa? Lì io non ho capito da quello che vedevo e leggevo, ho chiesto anche ad altri. Certo, c’erano opere belle e qualche “scoperta”, delle “chicche”, specie per chi frequenta solo l'arte contemporanea, e poi delle opere spettacolari come quella dei Chapman e l’arditezza di alcuni accostamenti... ma Tuymans è quel pittore sottile, fine intellettuale che dipinge figure storiche ma enigmatiche, quasi monocrome, uno di quelli che ha ridato ragioni alla pittura figurativa senza chiassi né clamori spettacolari, insomma tutto il contrario di questa sua Sanguine. L’avrà fatto apposta!
Può darsi, l'argomento essendo il barocco, l'arte dei contrasti, dei cortocircuiti: d'altro canto l'argomento dichiarato era proprio di quelli opposti alla sua personale apparente posizione defilata, ovvero il ruolo dell'artista nella società, questo sì, ma "la ricerca dell'autenticità, il turbamento indotto dall'arte, l'esaltazione della personalità dell'autore", il sanguigno insomma, appunto. Si vedeva?
Poi qualche settimana fa Massimo De Carlo inaugura una sua nuova sede milanese, la terza, in una bellissima casa d’epoca e d’autore. Operazione di restauro encomiabile e splendida idea di mettere il contemporaneo a confronto con un’architettura d’epoca, del XX secolo – non ci si pensa allo stesso modo quando lo si fa in un palazzo antico, dove prevale un fascino separato, intontente: qui scatta anche la materia grigia, come diceva qualcuno. Con elegante operazione pubblicitaria e grafica – i manifesti sono sparsi per tutta la città – la mostra, curata dallo stesso Massimo De Carlo e Francesco Bonami, si intitola MCMXXXIV, che è la data in numeri romani – come una lapide, rimando allo stile modernista, ma anche come un marchio (come la stessa galleria ormai nota come MDC, che farebbe 1600!) – della costruzione della casa Corbellini-Wasserman in Viale Lombardia al numero 17.
Per la casa, svuotata dei mobili, non si spendono altro che superlativi, è uno spazio fantastico; la visita è già appagante per questo, ma di che cosa si tratta? Un’altra operazione di accostamenti. Qui l’idea è chiara e precisa, opere dell’epoca della casa e opere di oggi degli artisti rappresentati dalla galleria, ma non è scontata, perché ha un assunto critico ambizioso: “sottolinea una visione laterale della storia fondendo elementi di storicismo con la modernità. MCMXXXIV presenta uno sguardo sulla storia con la S maiuscola ma allo stesso tempo ne presuppone uno più intimo e borghese: in Italia, ancora oggi, queste due visioni della storia si intrecciano e si sovrappongono”. Un anno drammatico, il 1934, viene fatto notare – forse un parallelo con questo in corso? – che sottende gli accostamenti “apparentemente innocui”, di dice, tra opere dai contenuti più evidenti in un caso e meno in altri, sia di oggi che di allora: il tavolo da guardino di Rudolf Stingel, lo scoiattolo di Sirio Tofanari, ma anche il busto di Mussolini sul caminetto e l’Hitler di Yan Pei-Ming.
Le opere sono tutte selezionate e molto ben valorizzate nell’allestimento curatissimo, l’idea è molto interessante, questa di una storia del gusto “borghese” che ha segnato e segna tuttora molto il collezionismo e la visione italiana dell’arte. Audace anche, visto quanto il termine “borghese” ha significato di negativo nell’ultimo secolo, post-postmodernista inoltre, con quella rimessa in gioco del modernismo, e postideologica, con quell’esibizione di tabù storici. Ma... ma tutto pare messo sullo stesso piano, tutto risulta estetizzato, direbbe Benjamin, rischia di diventare giustificativo, un’operazione revisionista mascherata di postidelogia, una commerciale mascherata di eleganza manifesta. Così Wildt è “grande” come Kounellis, Tofanari come Stingel... e/o viceversa?
È interessante, lo ripeto: il cinismo, la doppia morale, la retorica, il carrierismo, l’attaccamento al denaro “borghesi” è giusto che vengano ripensati senza pregiudizi e proprio come chiave storica che permette di riesaminare autori del passato ma anche visioni del presente. Ma se questo ha come esito una pacificazione, un livellamento in cui tutto è uguale, non si torna al lato peggiore del postmodernismo? Valorizzare non significa distinguere, precisare, analizzare, essere giusti con tutto? O mescolare, contaminare, come si dice, accostare liberamente, di nuovo, magari fingere di farlo? O è appunto una “finta”, per attirare l’attenzione, per accendere un dibattito, la versione borghese e postavanguardista della provocazione? Oddio, sarò più conservatore io di loro a dire così? Altro effetto del warburghismo, anche questo?
Un’altra mostra ancora: nella sua galleria che è composta da un’entrata e un’unica grande stanza bianca – uno white cube, come si suol dire –, Giò Marconi, ha inaugurato da poco una mostra intitolata I campi magnetici, riprendendo il titolo del famoso libro protosurrealista (1920, anticipo di centenario dunque), curata da Cecilia Alemani. Anche qui la scelta del titolo è ottima: funziona bene anche oggi la metafora dei campi magnetici – anche se chissà a che punto è la scienza sulla questione – e soprattutto in questo contesto, per cui il prima e l’ora sono in rapporto magnetico di attrazione e repulsione, influenza e deformazione. Ebbene, l’effetto è riuscitissimo. Personalmente non conosco la maggior parte degli artisti recenti che sono qui in mostra, se non per averne visti alcuni nelle loro personali alla stessa galleria (detto tra parentesi, una delle programmazioni da anni più discutibili ma interessanti e aggiornate di Milano), ma qui davvero non si riesce a distinguere, nell'ingorgo stilistico-teorico, il vecchio dal nuovo... Certo quelli storici li so riconoscere e alcune opere sono davvero famosissime, come certi Man Ray, ma per il resto è difficile, l’amalgama è perfetto.
Una parte dell’allestimento sembra rievocare la famosa mostra surrealista degli “oggetti a funzionamento simbolico” del ’36. In questo contesto, mi si permetta la spavalderia visto che ci siamo, anche Baj esce dal suo provincialismo ed è perfettamente integrato nell’insieme e d’altro canto la coloritura surrealista curva la visione di artisti insospettabili come Richard Hamilton e Louise Nevelson. L’insieme, appunto, lascia una bella impressione di “mostra” pensata, in cui gli artisti sono sullo stesso piano non per pretesa elevazione storica ma per visione interpretativa produttiva, altro aspetto dell’attrazione magnetica in gioco. Starei per dire che invece di sembrare tutti storicizzati o storicizzabili-museificabili, sembrano tutti di oggi, proponibili, tutti “giovani” (stavo per dire non “imborghesiti”).
Sarà effetto del rimando al Dada-Surrealismo invece che agli anni 30 nostrani? Se sì, non sarà un caso. Quel periodo fa ancora scattare idee, e non solo idee, al di là davvero di ideologia e postpost. Lo so che non siamo mai stati moderni, come dice Latour, e che non c’è argomento più massacrato delle avanguardie, ma, quanto a me, proprio l’altro giorno uscivo da un dibattito su situazionismo e fallimento delle avanguardie, per sintetizzare – era la presentazione di un libro di Stefano Taccone pieno di spunti di riflessione politica sull’arte, intitolato La radicalità dell’avanguardia (editore Ombre corte) –, e mi dicevo: A me pare invece che solo le avanguardie si siano salvate dal massacro mentre è tutto il resto ad essere fallito!
E per far capire che non sono un avanguardista ad oltranza e che c’è un animo borghese anche in me, faccio notare che c’è poi un’altra dimensione, magari più privata ma non troppo, nella mostra da Giò Marconi che ne implementa il senso: è che Giò ha innescato un campo magnetico anche tra sé e il padre Giorgio, titolare della storica galleria, le cui strade sono corse fin qui autonome e parallele e per la prima volta, vorrei dire sensibilmente, affettuosamente, comunque non pretestuosamente né dimostrativamente, qui si mescolano davvero, attraendosi e respingendosi a vicenda, disegnando una nuova configurazione come fa la limatura di ferro sotto l’effetto del magnetismo.
Ah, dimenticavo, l’argomento dichiarato della mostra è il corpo, “in particolare di quello femminile” si specifica, che in questo caso rende la stanza abbastanza uterina – ribaltando lo white cube della galleria –, avvolgente e al tempo stesso conturbante. Un abito da posa al centro segna il punto di rotazione delle forze in gioco, che in qualche modo dunque si sposano, s’épousent, diceva Duchamp, cioè più s’exposent che se marient.
Insomma alla fine mi son detto: meglio l’azzardo e l’irriverenza che la disinvoltura o il flirt. Qui Warburg non c’entra – o forse sì?