Foto bruciate

16 Febbraio 2012

L’amico Itaru Ito mi manda per email il racconto piuttosto straordinario dello scultore giapponese Ando Eisaku, in cui si rievoca la tragedia dell’11 marzo scorso. Ando si era ritirato da anni dalla città per vivere e scolpire in relativo isolamento in un piccolo villaggio sul mare. Negli ultimi tempi le cose gli andavano proprio male e faceva pensieri apocalittici con la moglie: se perdessi tutto e potessi salvare solo un oggetto, cosa sceglieresti? Lui, disperato, rispondeva: niente. La moglie: io forse il nostro album di famiglia.

Una decina di giorni dopo, l’11 marzo, dopo anni di assenza, decidono di fare un giro in città, vedere qualche mostra, passeggiare nel centro commerciale. È il giorno della tragedia: alle 14 e 46 la terra trema. Mentre sono in città, il luogo dove vivono viene completamente sommerso dallo tsunami e distrutto da incendi. Quando tornano, non c’è più niente da salvare.

                

Per mesi girovagano e vivono della generosità delle persone che li circondano. Un giorno ricevono un pacco per posta. Lo aprono e dentro ci trovano il loro album di famiglia accompagnato da una lettera del mittente che spiega di averlo trovato tra le macerie durante una visita sui luoghi del disastro e di esserselo portato a casa; ripulite le fotografie come poteva, su una ha trovato il nome dello scultore. Trovato l’indirizzo, ecco la restituzione dell’album.

A parte la coincidenza che avrà colpito tanto la moglie, la cosa che colpisce tutti è quando la metafora diventa realtà: davvero le fotografie scampano ai terremoti, tsunami, incendi e scampano perfino gli oggetti fotografie.

 

A proposito di metafore, mi avevano già sorpreso qualche tempo fa un paio di versi di una canzone di David Gray intitolata Nemesis, che dicono: “I am the photograph / They found in your burned out house”. Non avevo mai sentito né letto di qualcuno che si identifica non con un fotografo ma con una fotografia. La coincidenza con il racconto di Ando Eisaku è che anche Gray tra le tante fotografie possibili ha pensato proprio a una fotografia scampata ad un incendio.

 

A proposito di realtà invece, e di incendi reali, tre mesi fa ho visto alla Kulturhuset di Stoccolma una mostra di una coppia di artisti italiani, Arianna Arcara e Luca Santese, membri del collettivo Cesuralab, che esponeva fotografie recuperate in case abbandonate di Detroit. Sopravvissute al tempo, maltrattate dalle intemperie, spesso bruciacchiate, per i loro autori sono l’“autoritratto” della città – così il titolo della mostra Detroit: A Selfportrait – e spesso gli album di famiglia dei suoi abitanti.

A un certo livello fanno impressione, con le superfici delle immagini rovinate, le figure di fatto deformate, che si guardano come un mondo stravolto, una storia altra, le vestigia di una realtà fantasma. Viene da pensare appunto: ma che cos’è ciò che sopravvive? E dunque che cos’è un’immagine?

 

A questi pensieri collego quello che vedo anche oggi in televisione: sempre più è in uso da qualche tempo che i manifestanti di sommosse di ogni tipo brucino ostentatamente le immagini dei loro nemici. Lo fanno davanti ai fotoreporter o alle telecamere. Senza rendersene conto, di fatto consegnano in questo modo anche le loro foto bruciate alla sopravvivenza in altra forma.

 

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