Larry Fink. Social Graces

8 Maggio 2014

È sicuramente la galleria più piccola di Milano, quattro metri per quattro forse neanche, in cui una parete ha pure davanti un tavolo e un’altra ha una grande finestra che la occupa quasi per intero. Eppure il suo intelligente gallerista, Sebastiano Dell’Arte, vi infila una mostra più interessante dell’altra, proprio grazie a lui innanzitutto, che valorizza ogni opera, di cui a richiesta vi sa non solo dire tutta la storia, ma le ragioni e la qualità.

 

 

Le mostre collettive non avranno temi rigorosi o all’insegna delle parole d’ordine attuali, ma la scelta è sempre motivo di una scoperta, di un’invenzione, di una passione. Nomi famosi e nomi meno, un dipinto monocromo insieme a una fotografia di Cunningham che non vi potevate aspettare o un’eclisse di luna di Tillmans. Ogni visita è una sorpresa e tempo guadagnato per il visitatore. Opere di valore anche economico, non stiamo parlando di masochismo: il gallerista è anche mercante, vi informa anche delle quotazioni con competenza, ma vi fa venire voglia di comprare tutto, perché vi fa desiderare il pezzo, fa leva sulla stessa curiosità e pulsione collezionistica che anima voi. Gli è scappato detto qualcosa del tipo: Faccio le mostre con le opere che vorrei collezionare io stesso. Poi naturalmente deve venderle, almeno in parte.

 


Attualmente ha una rara mostra del fotografo americano Larry Fink, una serie di vintage scampati allo smembramento della sua mostra più famosa, del 1979 al Museum of Modern Art di New York, riferentesi al libro dal titolo emblematico Social Graces. Sono solo sette su una settantina, ma sono una più bella dell’altra.
Fink è del 1941 ed è uno dei famosi fotografi usciti dalla scuola di Lisette Model, compagno di corso di Diane Arbus e Garry Winogrand. Social Graces è il progetto che l’ha reso famoso e che ha finito con il caratterizzarlo per tutta la vita. Vi ha messo a confronto due mondi, uno proletario e quotidiano, l’altro ricco e festaiolo.

 

 

L’iconografia è cruda in entrambi i casi, il primo per la vita grama, il secondo per il distacco con cui si chiama fuori. Vi si vedono scene a tavoli sia di case disordinate e povere sia di locali chic in cui eleganti signori e signore conversano e si divertono, persone obese e malvestite, dai grugni sospetti, o persone di classe dalle espressioni convenzionali. Viene facile metterli in contrasto e liquidare la questione nei suoi temi sociali e politici, magari in termini di satira che si esercita su entrambi i mondi – lo si è accostato, anche in mostre, agli espressionisti tedeschi di Weimar, tipo Grosz e Dix –, ma l’autore chiarisce subito fin nell’introduzione al libro: “Alcuni fraintendono il mio lavoro prendendolo per satira. [...] Ma le immagini sono prese nell’intento di trovare me stesso negli altri, o gli altri in me”. E ancora: “Lavoro politico ma non polemico. [...] Non è stato Marx a scegliere i personaggi di questo libro, ma il desiderio, l’attrazione e il destino”.


Non sono dichiarazioni sovrapposte alle immagini, le si vede se si guarda il modo con cui Fink scatta le fotografie. Quello che salta subito all’occhio è l’uso del flash che esaspera i contrasti di luce e oscurità. A volte – ce n’è un bellissimo esempio in mostra di due ragazze, una delle quali tiene per un braccio l’altra che pare in preda a un malore – isola le figure in uno sfondo che diventa completamente buio. Altre volte sembra che Fink non centri l’immagine e la luce del flash cade nel posto sbagliato, di lato, come se sparasse un po’ a caso nella mischia. L’effetto è curioso e particolare, meno compositivo e più vivo, di naturalezza e di fretta, prima che l’immagine sfugga. Così, in mostra, nel caso della donna obesa con abito a fiori, colpita in realtà al fiore al centro dell’esuberante seno, che sta tutta sulla destra e prende un’aria strana tra il mesto e non so che. Oppure la danzatrice dallo scatto repentino verso sinistra, che sembra come aver evitato il colpo – lo shoot, sparo e scatto –, che colpisce invece il giovane alle sue spalle (sparato, bruciato dalla luce).

 


Sono insomma immagini per niente scontate, né per l’epoca e il contesto né per l’occhio scafato di più di trent’anni  dopo. Non sono scenette, non si riesce a raccontarle in quel modo, ci sono in ballo il “desiderio, l’attrazione e il destino” come fattori individuali e sociali: nascere e crescere in un contesto piuttosto che in un altro, ed esserne modellati e rimanervi – forse è proprio il senso della foto del bambino in piedi sullo schienale dove è sdraiato un ragazzo obeso a petto nudo. Per questo Fink può parlare di vedere se stesso in loro e loro in lui.


Insomma, è la fotografia, signori, non altra cosa. Fink la dice anche in questo modo, sempre nell’introduzione al libro: “Questa predisposizione verso l’oscurità e il desiderio è la mia compulsione; il conflitto tra la rabbia politica e l’immersione nella sensualità viene parzialmente risolta nell’immagine argentata”. Sono parole, mi sembra, utili anche oggi: la fotografia come parziale risoluzione di conflitti e predisposizioni contraddittorie. L’immagine “argentata”, bellissima definizione.


Alla luce di questo, spendo due parole per dire che anche la cocciutaggine di Dell’Arte nell’andare a cercare lungamente i vintage rimasti, senza accontentarsi delle stampe rifatte per altre occasioni espositive nei decenni seguenti, non è né un vezzo né snobismo, ma ha tutta l’aria della sua ricerca di una risoluzione, almeno parziale, di quest’altra passione contraddittoria che è quella di fare il gallerista nel modo che è suo.

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