Star Wars. I padri, i figli, l’America, la storia
Dichiaro subito di non essere un esperto di cinema e neppure un fan sfegatato di Star Wars. Guerre stellari. Ho visto la prima trilogia varie volte. La prima fu al cinema, sullo scorcio di un anno, il 1977, in cui eravamo troppo dentro gli scontri politici italiani per distogliere lo sguardo e esercitare una prospettiva storica (almeno io). Entusiasmò molti di noi, perché vi sentivano comunque un’eco dei tempi; altri li lasciò diffidenti, nel vedere trasformata in grande spettacolo la lotta che contrapponeva bene e male (allora ben definiti, identificabili). Ho rivisto i tre vecchi film con mio figlio piccolo, sull’antico supporto del VHS, tante, tante volte. Del prequel ricordo poco. Sono andato in questi giorni (con mio figlio ventiquattrenne) a vedere Il risveglio della Forza e sono stato folgorato. Prima di tutto dalle reazioni della sala, una multi piena soprattutto di ragazzi. Applausi a scena aperta, alla riapparizione degli eroi della prima serie (la chiamo così). Ovazioni quando il Millennium Falcon ricompare come un rudere sepolto dal tempo, un oggetto di archeologia industriale. Erano battiti di mani giovani, leggere, timide all’inizio, un clap clap diverso da quello degli anziani abbonati dei teatri che di solito frequento. Eppure aprivano la strada per un salto nella memoria.
E così è andata avanti la proiezione, con vari applausi, che a poco a poco sottolineavano gli snodi epici e drammatici del film. Di un film che si rivelava sempre più con il passare del tempo rimodellato sul primo della serie, paesaggi simili, nemici ed eroi analoghi, stessi meccanismi, anche se lasciava vedere tutto il tempo passato da Guerre stellari e attuava qualche spostamento significativo. Su molti di questi elementi bene ha scritto su Doppiozero Emanuele Sacchi (leggete qui l’articolo Star Wars. Un timido risveglio). Gli applausi lo dichiaravano, lo enfatizzavano questo passare del tempo: iniziavano riconoscendo gli eroi, gli oggetti, i meccanismi della saga per poi, sempre di più, partecipare alla tensione drammatica di una storia che si è rinnovata rimanendo fedele al suo imprimatur con qualcosa di diverso, di nuovo.
Il tradimento dei padri
Credo che quel qualcosa di diverso sia la storia del mezzo secolo che è passato, che abbiamo attraversato. La prima saga era la storia mitizzata della generazione del Vietnam, di quella Underground che aveva alle spalle la Beat Generation. Ragazzi che avevano sognato un mondo libero, di esplicazione di tutte le possibilità e libertà individuali fuori dalla compassata vita square, un mondo dove la felicità era alla portata di mano per tutti. I sogni, insomma, della Baby Boomer Generation, cresciuta nel secondo dopoguerra senza padri o affrancatasi dai padri repressivi con la ribellione, l’arte, la lotta libertaria, la musica rock, gli atteggiamenti anticonformistici, l’invenzione di mondi paralleli. La Sex, Drug & Rock ‘n Roll Generation, quella di Bob Dylan e dei Beatles, quella di Martin Luther King e della rivolta dell’università di Berkeley, di Che Guevara e del ‘68.
Era quello l’universo di Ian Solo (si chiamava così, allora, in Guerre Stellari, ora Han Solo), nel 1977 un vero e proprio hipster anni cinquanta (il termine allora indicava una categoria sociologica diversa da quella di oggi); ed era diversamente quello il sistema solare di riferimento di Luke Skywalker, che proiettava l’on-the-road del Sal Paradise di Kerouac e molto altro della controcultura americana tra le galassie. C’erano alle spalle, naturalmente, lo zen West Coast di Alan Watts e di altri, il fantasy, la cultura hippie e molto ancora (anche quella tendenza all’invenzione casalinga di mondi virtuali che sarebbe stato sviluppata dai nerd della Underground Generation, Steve Jobs e Bill Gates). C’erano tutti gli anni ‘60 e ‘70, e lo scontro con il lato oscuro del Vietnam, con quel Dart Vader generale Westmoreland e quell’Imperatore Johnson/Nixon che tradiva le speranze dei figli (a questo proposito è uscito qualche anno fa un libro del giornalista Chris Taylor, How Star Wars Conquered the Universe: se ne può leggere qui una recensione). La prima saga avrebbe potuto chiamarsi Il tradimento dei padri e con Apocalypse Now e Full Metal Jacket è il più bel film sul Vietnam che sia stato girato (esagero, naturalmente, perché nel primo Guerre stellari c’era anche molto altro: l’epica è così, trasfigura, proietta, moltiplica; e c’era anche meno di quei due altri film).
La generazione dei figli
Il ritorno della Forza si incentra sulla generazione dei figli. Riappaiono quelli che una volta erano i figli e che ora sono padri invecchiati, “fricchettoni” stagionati che sembrano superati dai tempi ma che forse hanno ancora qualcosa da dire. Ma soprattutto protagonista diventa il tradimento di Kylo Ren, alias Ben Solo, nientemeno che il figlio di Han Solo e della principessa Leia passato al lato oscuro della Forza. Il padre, imbolsito ma ancora aitante, col suo barbuto e capelluto wookiee socio, Chewbacca, a fare i suoi traffici loschi di avventuriero tardo hippie per l’universo; la madre guerrigliera contro il nuovo ordine della galassia, non più l’Impero, ma il Primo Ordine (qui le maiuscole ci vogliono tutte). E lui è passato al nemico, al fascismo, o forse alla seduzione dell’ordine (appunto) dopo tanto disordine famigliare, a un meccanismo regolato, meticoloso, tecnologico (con falle, per fortuna), che possiamo identificare anche con altri “sistemi”, tipo l’economia del potere finanziario. Interpretando o forzando la metafora potremmo dire che rappresenta la gioventù post-yuppie, che cerca di riemergere dalle crisi surfando sui lati oscuri della Forza (o del Mercato, se preferite: non lasciamoci abbindolare dall’iconografia simil-nazista). È il figlio che ha abbandonato le orme dei padri in cerca di un ordine rassicurante, perché cresciuto troppo nelle incertezze, l’unica eredità garantita da genitori che avevano bruciato ogni propria e altrui sicurezza, che avevano fallito, sostanzialmente, il sogno di costruire un mondo diverso e si erano richiusi nel narcisismo, nell’arrivismo o nella fuga verso paradisi artificiali fino a qualcosa che somigliava all’autodistruzione, allo sbriciolamento, al riassorbimento nel sistema o all’impotente critica di esso. Kylo è un Renzi Dark, è la delusione che cerca di farsi concretezza e efficacia a botte di spada laser rossa crociata.
Ma nel film ci sono altri giovani, smarriti. Aspettano, come la ragazza Rey, che dal cielo arrivi qualche notizia dei padri sconosciuti e che non vogliono muoversi dalla loro piccola patria. O come il soldato nero cresciuto per essere macchina da guerra: ha per nome una sigla, FN-2187, e solo nella ribellione prende il nome di Finn. Siamo in una zona grigia, che somiglia a quella dei ragazzi che alla proiezione battevano le mani. Questi giovani sono antieroi che navigano in un quotidiano senza slanci, insoddisfacente. Sono pronti però, perciò, se l’occasione appare, a diventare grillini, antagonisti, indignados, a cercare di mettere i bastoni tra le ruote di un sistema sentito come estraneo. Magari al seguito di qualche di qualche nuovo ribelle o di qualche vecchio guru, che però finirà male o come Luke eremita in lontani isolamenti geografici e spirituali. La svolta avverrà solo quando loro, una di loro (significativamente, in modo politicamente corretto, attratta dell’ex soldato nero), prenderà in mano, per caso, prima inconsapevolmente, poi con sempre maggiore stupore di coscienza, la Forza. Il lato luminoso della Forza. Quando riscoprirà che tutto il mondo è santo, tutto il mondo, come urlava Chewbacca Allen Ginsberg (…Santo il mare santo il deserto santa la ferrovia santa la locomotiva sante le visioni sante le allucinazioni santi i miracoli santo il globo oculare santo l’abisso…). Anche Star Wars è santo, anche la nuova generazione perduta, non per eccesso di esperienze traumatiche, come nei due dopoguerra del novecento, come dopo il Vietnam, ma per apparente deprivazione di esperienza.
Sullo sfondo, in primo piano, la nuova guerra
La guerra che attraversa tutto, nonostante i paesaggi desertici, è una guerra antica, che sempre di più somiglia all’epica, oppure è guerra futuribile: ci porta lontano dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Siria, e ci spinge verso lo spazio stellare o verso l’abisso dei rapporti, degli scontri tra le generazioni, della necessità di proiettarli in un immaginario eroico, ogni volta iniziatico, che diventa scenario mentale, virtuale, videogioco. Ci ricorda l’ansia di normalità, di banalità quotidiana delle generazioni che seguirono quella della seconda guerra mondiale, dalla metà degli anni 70 in poi, dalla fine del conflitto del Vietnam, quando le guerre sembrano allontanarsi e da allora si proiettano in scenari mentali, spaziali. Tanto che poi gli Imperi cercheranno sempre di più di trasformare le guerre reali in repliche di guerre stellari, senza impegni di vite sul campo (e perfino il terrore si ispirerà all’immaginario hollywoodiano). L’orrore, il sangue vero di un compagno procura la trasformazione di quell’eroe nero, Finn, lo porta a tradire l’Ordine. La realtà con il suo carico di orrore e di paura si proietta in metafora, la guerra diventa rappresentazione, iperbole spaziale, gioco, per non fare male, ma continua a nascondere tra gli spazi siderali il nocciolo di conflitti brucianti, di ferite sanguinanti, anche nello stato di pace apparente. E tra tutti i conflitti esplodono quelli tra padri e figli, tra le generazioni. I tradimenti, le trasformazioni. Con quella proiezione nel mito (spaziale, collocato in un futuro anteriore, “tanto tempo fa in una galassia lontana lontana”) che distanzia e apre altri panorami immaginari. Questo film racconta anche questo. E perciò entusiasma, credo, noi vecchi e quelle mani leggere timide che nel mio cinema applaudivano, applaudivano a scena aperta.