Un festival discoteca / Santarcangelo 46
Fumogeni che invadono la scena. Musiche compulsive. Neon e lampeggiamenti. Fuoco e trance. Donne corvo che appaiono in diversi luoghi: cambia l’ambiente, per il ripetersi di azioni simili.
Santarcangelo 46, dedicato alla memoria di Sandra Angelini, compianta organizzatrice dei Motus, anima grande, è l’ultima edizione diretta da Silvia Bottiroli, che negli anni alla guida di questo storico e titolato festival ha sperimentato varie frontiere, sempre più verso la performance, sempre più verso un “teatro” contemporaneo che mette in discussione le sue stesse nature ed esplora nuovi continenti, a volte facendosi specchio dell’alienazione che viviamo, provando ad aggredirla con graffi d’artista o almeno a isolarla, a sottolinearla, a sottrarla al corso inevitabile delle cose, ai meccanismi seduttivi della società dello spettacolo globale. Questa edizione potremmo definirla festival discoteca.
Tempo, spazio, ritualità, palinsesto
Nel programma molti sono i riferimenti al clubbing contemporaneo. E ancora di più, forse per suggestione, li ritrovi negli spettacoli, e, sicuramente, nel gesto complessivo della rassegna, che rifiuta la logica dell’appuntamento chiave, di rilievo e richiamo, per disseminarsi di piccole o grandi azioni, di visioni estatiche, di coinvolgimenti, in un tempo totale e assolutamente discontinuo, in spazi multipli e in fuochi compresenti, in un investimento complessivo del territorio, in un tentativo di ricreare o creare, o evidenziare il bisogno di ritualità, o mostrare l’impossibilità. Questi tre parametri (tempo, spazio, ritualità) sono evidenziati da Bottiroli nella sua introduzione, intelligente e fredda come i suoi anni di festival, in un tentativo di sfuggire ogni calore del teatro, per trasformarlo in atto di conoscenza (con qualcosa di autoptico), per mettere in modo penetrante in discussione la realtà che quotidianamente subiamo.
Un altro parametro aggiungerei: quello della natura di assoluto palinsesto personale che può avere il festival. Ognuno, arrivando nella cittadina romagnola alle spalle di Rimini, tra le sue strade medievali, nella spianata dello Sferisterio, tra i capannoni di una periferia in continua mutazione, può costruirsi il suo festival, fatto anche delle classiche, oleografiche, bancarelle, delle immancabili piadine o tagliatelle, dei gelati bio, degli incontri, del giro dei bar che ogni anno cambia la nomenclatura dell’in e dell’out.
Siamo a pochi passi dalla riviera romagnola, dal divertimentificio, dalla Disneyland postmoderna, e questo non si può dimenticare. La manifestazione, conservando con astuzia o impudenza la vecchia sigla anni ‘70 di Festival internazionale del teatro di piazza, abbandona la forma teatro, in realtà usurata da anni di prodotti corrivi e di regime e, dal lato della ricerca più inquieta, da pratiche e discorsi postdrammatici (ma ancora viva altrove, la pratica del teatro, con sue ragioni d’essere, per esempio sull’altra costa, dalle parti di Castiglioncello, come scrive Scarpellini). Cerca di rimeditarlo, il “teatro”, di analizzarne la natura mutante, di indicarne le metamorfosi mettendolo a confronto con forme in divenire: gli anni scorsi la partecipazione, il discorso pubblico; quest’anno quella strana, elettrica, alienante ed entusiasmante, liberatoria, democratica agorà incubatrice di comuni solitudini e provvisorie comunità che è la forma “discoteca”.
Può sembrare un discorso estremo. Basato su quattro cinque spettacoli e un paio di performance visti in due giorni, e qualcos’altro annusato. Ma vedere tutto è impossibile. In un festival come questo (a differenza, appunto di Armunia a Castiglioncello) sarai sempre sul frame, dovrai costruirti con qualche aiuto, del programma, di amici, dell’ufficio stampa, il tuo palinsesto. E però non sarà un caso se varie volte vedrai la scena invasa da fumogeni, gli spot luce lampeggiare, neon sparati, musiche ripetitive e compulsive, anche davanti a un fuoco. Potrei vedere e ascoltare e immergerti nelle onde del Mare del Nord nell’installazione Thirst del lettone Voldemārs Johansons, o in una natura artificiale che cerca di rendere il fremito di quella vera nell’installazione di Cosmesi, il tutto in un “privée” sensoriale (per continuare la metafora della discoteca) fatta da un capannone che nei suoi lati non allestiti si rivela deposito e lascia il sospetto che tutto questo discorso sul naturale si svolga in mezzo a presenze di eternit.
Puoi incontrare varie “animazioni”, azioni a partecipazione che invadono lo spazio. Come Corbeaux, congegnata dalla coreografa marocchina Bouchra Ouizguen, che con alcune sue danzatrici e alcune donne di Santarcangelo appare in vari luoghi, donne corvo dal fazzoletto bianco-becco che si accordano, voce e corpo, per arrivare alle dissonanze, al lamento, al grido di dolore viscerale, sul tetto del Supercinema con lo sfondo di un muro cieco di un alto palazzo in cemento, sulla terra dello Sferisterio, in una grotta, in altri luoghi. E altre ce ne saranno di azioni a partecipazione nella città, che trasformano lo spettatore in partecipante al rito, dandogli l’ebrezza di essere protagonista come sulla pista.
Sono azioni che cambiano i connotati del quotidiano, in quel grande sconvolgimento, in quel periodo di sospensione e rivelazione (apocalisse?) che è il festival, ipotesi di utopia e attesa di rinnovamento millenaristico, specchio della società dell’intrattenimento, del non lavoro, del tentativo di recuperare presenza, corpo, dolore nella liquidità virtuale del tempo liberato (l’uomo pescatore, lavoratore, intellettuale, artista di Marx) che si rivela tempo espropriato: da se stessi spesso, con la complicità di se stessi diventati i propri padroni di giorni senza orari (Byng-Chul Han), e perciò tempo irredimibile. Tempo messo in questione, in discussione.
Fuoco ed estasi nella notte
Forse l’installazione più importante ed esemplare in questa ritualità ipotizzata e riflessa, proposta e rispecchiamento, invenzione e reificazione, è Lumen di Luigi De Angelis con la musica elettronica, estatica, sciamanica di Emanuele Wiltsch Barberio. Non a caso De Angelis, fondatore con Chiara Lagani di Fanny & Alexander, è famoso anche per le azioni in discoteca. Qui Lumen è un lungo falò nello Sferisterio. Aperto dalla diffusione amplificata del battito del cuore di un artista, inaugura il festival, per essere poi ripetuto con la stessa cerimonia cardiaca in altri luoghi. La danza delle fiamme, le storie che raccontano senza parole, aprendo lo sguardo, l’attenzione, verso lo stupore; le musiche indiane o mongoliche o di altre parti del mondo, fortemente ritmiche, rituali, virate verso l’elettronica, cercano di ottenere quell’effetto che Jean-Jacques Rousseau dava per sicuro: “Piantate al centro di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il popolo e avrete una festa”. Qui il fascino prende sicuramente alla gola, ma non per molto tempo. Qualcuno accenna passi di ballo, qualcuno scappa per il caldo, dopo la calca iniziale, qualcuno si rifugia verso il fresco di una birra o del viale alberato, qualcun altro continua a ballare. Mi sembra ognuno per sé. Come in discoteca: comunità di singoli. La musica pervade la città per varie ore, la innerva, la unisce penetrando nelle stanze da letto. Per fortuna siamo a Santarcangelo: mancano solo i (fatali) comitati di cittadini che vogliono dormire.
Concetto e corpi: la danza di Cristina Kristal Rizzo
Spostamento dell’azione verso la danza. Grande, fascinosa danza. Perfetta danza, quella di Cristina Kristal Rizzo, forse la nostra maggiore coreografa, con quella forza della natura e della tecnica che è la giovane Annamaria Ajmone, più che una promessa una certezza della nostra scena. Una danza sempre sospesa tra ricerca e presenza corporea e concettualità, a scalcare e a spostare forme, convenzioni, modi di fare e essere smontandoli intellettualmente e rimontandoli con lo splendore della presenza pura (una presenza che non cessa di porre questioni, domande, di decostruire, rimandare e ricostruire continuamente).
Boleroeffect, del 2014, in replica al Lavatoio. Musiche che non hanno molto a che fare con Ravel, curate da Palm Wine. Ma hanno un’omologa ripetitività, una simile capacità di avanzare senza muoversi, di procedere senza andare avanti. Le due danzatrici, facendosi spesso schermo con braccia e mani, andando in primo piano o diventando sfondo a un appannarsi delle luci, dell’immagine, reiterano gesti, movimenti, passaggi, verso una sorta di trance che c’è già dall’inizio, che non procede e non recede, implacabile come il desiderio che non riesce a sfogarsi, che si incastra e si ripete. Sono due prototipi, più che due interpreti o due personaggi. Cristina Kristal distante, apparentemente algida, perfetta come una dea della danza nordica, con lo sguardo introflesso verso un altro mondo che ci interseca per intellettuale, dimostrativa, esemplare osmosi, in un iperuranio di perfezione tra la riproduzione e l’invenzione. Annamaria, anche quando non guarda, carnale, come se ti scrutasse nell’intimo, ti ammiccasse, ti mostrasse la felicità di esserci, là, vicina e distante, ballerina per te, per lei, per l’aria, il mondo, l’erba, gli alberi, il cielo, il sorriso. Uno spettacolo bellissimo, continuamente emozionante, come due assoli persi su una pista del Cocoricò, con maestria impareggiabile.
In Prélude, sempre firmato da Cristina Kristal Rizzo, la vera protagonista di questa prima parte di festival, una delle nostre più grandi artiste, la forma diventa sfida. Un’ora prima della danza e una dopo si ascolta la testimonianza di un concerto di Sun Ra, musicista afrofuturista, un frammento della registrazione di ventisei ore ininterrotte di composizioni e improvvisazioni tra il 26 dicembre 1980 e l’1 gennaio 1981. Poi, con accelerazioni anche queste afro e futuriste, e con reticenze malinconiche, appannamenti, interruzioni di flussi e riprese, sette danzatori (Annamaria Ajmone, Linda Blomqvist, Vera Borgini, Tiana Hemlock-Yensen, Leonardo Maietto, Alice Raffaelli, Charlie Laban Trier) si confrontano con l’idea di preludio, in un continuo incominciare che non si sviluppa, che non arriva all’atto dello slancio, dell’evoluzione, della conclusione, e si chiude nella reciproca, inesausta interrogazione. I movimenti di gruppo sono sempre sfasati da qualche singolo, gli spostamenti sulla linea retta vengono intersecati da altri sulla diagonale e sul cerchio, spesso incompiuto, in un ricerca anche sulle linee vettoriali fondamentali della danza.
Palm Wine anche questa volta esplora, monta, inventa, sfasa, sfuma suoni, fino a trasformare le coreografie individuali, connesse in tessiture mobili, in un grumo, in un gruppo, groviglio di corpi. Lentamente questo mostro dalle molte membra si muoverà, si sformerà, si riformerà, si scioglierà, in una linea che avanza, con qualcuno che va in altra direzione opposta e contraria, qualcuno che si confessa al microfono, per tornare poi alle danze, singole, di gruppetti, fino al rispecchiamento di un danzatore nell’altro, a specchio: fino all’uscita. Si tratta di un’anteprima, con le porte in fondo al teatro aperte e i passanti che scrutano, in una realtà che si fa finzione, quadro, citazione, specie quando i fumogeni invadono la sala, rendendo quello sfondo reale della piazza, un’auto che suona il clacson, un signore con i cani, una ciclista, l’odore di grigliata che arriva dai ristoranti, finzione estrema della danza formalizzata, delle melanconie del cercarsi senza vedersi, dell’incontrarsi senza guardarsi, atomi di una forma nascente, senza evoluzione.
Benvenuti nella caverna
Tra apparizioni e installazioni lo spettacolo di richiamo del primo fine settimana era La nuit des taupes. Welcome to Caveland del francese Philippe Quesne, condirettore del Centro Drammatico Nazionale di Nanterre (Francia). Anche questo non è, in realtà, uno spettacolo: è un processo in divenire, fatto di vari atti (si è vista anche una parata di talponi e si vedrà, nel prossimo fine settimana, un Caveland Cineclub). Lo spettacolo cui abbiamo assistito si è formato attraverso varie performance. Sprofonda in un sottoterra, con una strana stanza bianca, perforata da talpe, giganteschi peluche mobili che ti portano in un mondo tra quello dei cartoni animati e un crudele specchio animalizzato, sotterraneo, del nostro. In altre versioni c’era anche un piano superiore, con presenze umane. In quella caverna, tra stalattiti e stalagmiti di cartone, per un’ora e mezza semplicemente si riproduce la vita umana: si muore, si lavora (bucano la terra per andare in altre caverne, uguali a quelle che hanno lasciato), si portano di qua e di là blocchi di materiale di risulta, si partorisce, si fanno primitivi ritratti, si cercano vermi, si raccolgono e ci si butta sopra per divorarli e sfamarsi. E via di seguito. Ma c’è, in un angolo, una vena d’oro. Ci sono strumenti musicali che vengono messi in funzione con gli unghioni, e oltre a un basso e a una batteria c’è uno struggente theremin che introduce sonorità malinconiche, lontananze mediorientali, esodi, terre promesse e perse irrimediabilmente. C’è uno scivolo. C’è una corsa in monopattino. C’è l’intrattenimento, un delirio lisergico su uno schermo simile a quello della caverna di Platone, che prima sembra mostrare un terreno rizomatico, bulbi, snodi, poi una famigliola superna umana felice, poi macchie di colore alla Rothko, come le infinite sfumature di Marsiglia #10 (seconda parte) della Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio.
E fumi, e neon, e un finale da discoteca, con un’accelerazione quasi verso la trance, ancora, di uno spettacolo che per tre quarti buoni giocava a riempire il nulla in modo molto barocco, un si-muore-si-nasce-si-divora-si-rappresenta-senza-costrutto, tra il cartone animato da orso Yoghi crudele e il requiem lisergico alla società dello spettacolo. La soluzione, la via d’uscita dalla caverna platonica, tra stalattiti, stalagmiti, buio, scritte gotiche e vene d’oro, sembra evidente: l’unico modo per sopportare è intrattenersi, nel pulsare super-ritmico, nei fumi (liberatori) degli effetti speciali.
Clubbing contemporaneo? Quelle che abbiamo raccontato sono belle diagnosi, o radiografie, senza indicazioni di terapia, ci sembra. E questa, dobbiamo riconoscerlo, è la vitalità di questo festival, che segnala nuove ritualità di bande, di gruppi, di individui che come noi vogliono esserci, apparire, scambiare esperienze, reali e virtuali, che somigliano a sogni e a ipotesi per un altro quotidiano. Questo festival, dobbiamo apprezzarlo, pone la questione, la domanda cruciale, oggi, degli incroci e degli slittamenti tra intrattenimento, evasione e presa di coscienza; tra soggettività e ritualità, diffusa, controllata, esplosa. Portando in un vortice che rapisce e inquieta, che annuncia il passaggio sul baratro che ci seduce. Forse molto più di spettacoli di teatro-teatro, di contenuto, di testo, di forme, di critiche dell’esistente apre la visione perturbante della vertigine che ci attira.
Santarcangelo festival internazionale del teatro in piazza, a Santarcangelo di Romagna fino a domenica 17 luglio.