L’Odin Teatret ai Cantieri Koreja di Lecce / L’albero secco, la guerra, gli uccelli
Torna nel Salento, dove nacque più di ottanta anni fa, Eugenio Barba, il regista inventore di mondi, esploratore di teatri vicini e lontani. Ha il fisico asciutto, dritto, scattante, l’intelligenza sottile, come un soldato dell’esercito guerrigliero di utopia. Ha portato in prima italiana ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce L’albero, il nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Un albero secco che qualcuno vuole disperatamente far fiorire, perché possano tornare sui suoi rami gli uccelli fuggiti lontano e dispersi nel mondo; quei rami che qualcun altro vorrebbe segare e ridurre a legna da bruciare. È un Tannhäuser senza il senso del peccato individuale: dove la colpa è attribuibile a un’umanità feroce, che uccide, che distrugge, contro cui si schierano i semplici, i tenaci, i bambini che nel crescere non hanno dimenticato i sogni e gli insegnamenti dei padri poeti.
Questo spettacolo colpisce per l’asciutta distillazione dei segni, allontanando dal ricordo di un Odin prorompente, provocatorio, tutto fisico, corporeamente emozionale, in cerca dello shock dello spettatore. Conquista come una favola amara e ribadisce il credo del gruppo danese (ma innestato di presenze e di lingue teatrali di tutto il mondo) in una scena che contagia per magia, per risonanze profonde raggiunte andando a toccare le regioni più segrete con distillazione tecnica raffinatissima e immaginazione coinvolgente. Si dichiara la terza tappa della “Trilogia degli innocenti”, dopo La vita cronica e Le grandi città sotto la luna, sguardi di traverso al nostro mondo, con occhi che non si rassegnano al dolore, al conformismo, al consumismo, alla sofferenza, alla rinuncia. Che coltivano il sogno, anche nelle terre grigie dell’incubo.
Lo spettacolo è riservato a 104 spettatori, 57 per lato, in una tribuna che può essere contenuta in valigie ed essere trasportata in aereo. È disegnata da Luca Ruzza, lo stesso architetto che ha riadattato a teatro e luogo di incontri una vecchia fabbrica di mattoni creando gli spazi multipli di Koreja, dove Barba in questa occasione ha tenuto vari incontri e presentazioni di libri (il teatro come opificio, come luogo di cultura dinamica e non solo di rappresentazione: è proprio il modello che persegue da sempre l’Odin). Lo spazio scenico contrasta, con i suoi colori freddi, il grigio del tappeto, un arancio sbiadito, l’azzurro delle sedute, con i toni dei costumi e delle azioni degli attori. La tribuna circonda, come in un teatro anatomico, lo spazio della storia; è costituita, per ogni lato, da due anelli formati da grandi tubi di plastica gonfiabile disposti su due piani. Sembra di essere in un gommone di migranti, ma un gommone high-tech, che richiamerà la situazione delle carrette del mare con scosse, vibrazioni di terremoto o maremoti, in certi momenti dello spettacolo che all’improvviso ti smuovono, ti scuotono, ti scossano. Stiamo forse rivelando troppo, ma confidiamo nel fatto, purtroppo, che questa grande creazione non ha al momento altre date italiane oltre Lecce (un assurdo): quando qualche grande città o media o piccola si sveglierà e deciderà di metterla in cartellone, i lettori avranno già dimenticato questo resoconto.
Sul soffitto della struttura (un vero teatro portatile) teli bianchi bucati che sembrano paracadute. E un’aviatrice sarà il personaggio centrale, la figlia del poeta da vecchia, sdoppiata in se stessa da giovane. Per lei il padre piantò un pero, promettendole che da grande avrebbe volato come un uccello per vincere il Barone Rosso. E ora si aggira desolata tra i rami secchi, spezzati, ricordando la gioventù, vivendo quello che avviene nello spettacolo – lei, l’ingenua, l’innocente, la desiderante – come un sogno dalle tinte e dai clamori di incubo, con momenti meravigliosi di abbandono e altri in cui appaiono figure spiritate che dispensano morte e odio come signori della guerra e delle stragi, padroni di bambini-soldato, sacerdoti di sacrifici umani.
La scena o il sogno di Iben (è lei, Iben Ragen Rasmussen, l’attrice simbolo dell’Odin, la piccola principessa aviatrice) si popola di figuri sinistri dal naso rosso di clown, buffoni sanguinari che governano la guerra ed esigono tributi di vite umane alla loro grottesca, terribile sete di potere. Uno è la tigre Arkan, il macellaio di Srebenica, il profeta della pulizia etnica nell’ex Iugoslavia, con i capelli drizzati schizzati verso l’alto come un sinistro punk, con la fisarmonica e la tromba, con una dizione scandita, martellante, militaresca. “Avete il diritto di uccidermi, ma non avete il diritto di giudicarmi”, dirà. L’altro rappresenta un signore della guerra africano, Joshua Milton Blahyi, a capo di un esercito di bambini-soldato, che spinge alla ferocia con sacrifici umani, promettendo l’invulnerabilità. In scena appare, presenza costante, una donna igbo, del Biafra (ricordate: la secessione dalla Nigeria, la guerra tra il 1967 e il 1970, le foto dei bambini ridotti alle ossa, la morte per fame?). Lei, di bianco vestita, porta sempre un fagotto con sé: diventa ventre gravido, peso da portare in equilibrio sulla testa, cesto contenente la testa del figlio morto, da piangere, da cullare.
Si parla degli orrori della guerra e di tutto ciò che causano: lutti, fughe, dispersioni di popoli, frontiere passate come uccelli senza casa, senza patria, senza albero. Di esseri umani allo stato ferino. Ma ci sono anche due monaci del deserto siriano, zoroastriani perseguitati da tutte le fazioni in lotta, che vogliono far rifiorire l’albero, che non credono che il Male possa vincere sul Bene. E compiono piccoli, teneri, tenaci rituali. C’è un servo di scena e ci sono due cantastorie, una biondissima violinista uscita da qualche roco punk-movie e una antica cantrice indiana col tamburo e con uno strumento a corda dal suono metallico, stellare, le uniche due senza naso rosso, le voci sofferte, dolci, ironiche, smagate, che ricostruiscono, che tessono i fili, ricordano, insinuano.
Tutto qui. Il signore della guerra africano è interpretato da un grande danzatore attore balinese: parla la sua lingua, a noi incomprensibile, come una litania che diventa canto, ruggito, rombo della terra, meditazione profonda, vertigine; avanza con un lungo coltellaccio o corta spada e affetta teste di pupazzi, mentre incita alla battaglia e mentre noi siamo – come i personaggi – coperti dal telo bianco caduto dal soffitto, con le teste spuntanti dai suoi buchi, decollati, con la tribuna che si scuote, si muove, ci smuove, ci terremota.
“Vola, Iben, vola” diceva il padre. E con i canti, con uova, con pietre macchiate di sangue, con umili sculture di cartapesta di case di uccelli, i monaci, con teli verdi, cercano di far rifiorire quell’albero, continuamente minacciato. Con bambole bionde Barbie e orsacchiotti annidati sui rami, ricordi di infanzie nella bambagia pronti a essere decapitati.
Sono movimenti continui, paralleli, in contrasto mai risolto: il costruire, il distruggere, il patire le conseguenze della distruzione, il non arrendersi. Il volere, il fingere per rendere possibile, come appendere pere ai rami per far sembrare l’albero vivo e farvi tornare gli uccelli migratori.
Chi vincerà questa lotta continua? Chi lenirà il dolore tatuato con bianche mani di bambino sulle guance della madre igbo, che fa penzolare dall’abito bianco vuote maniche color del sangue? Chi ritroverà le lacrime disperse tra i rami torti, scavati; chi li raccoglierà, i rami, per ricostruire l’albero con finzione teatrale, infiggendoli in appositi sostegni? “Quando verrà l’anarchia tutto il mondo sarà trasformato”, canta la biondissima violinista, un po’ elfo, un po’ strega. “Per te, mio amato, ho lasciato la mia casa, ho rinunciato a tutto, ho vagato per i sette mari e non ho trovato nessun gioiello”, scandisce dolce danzante la cantatrice indiana dai lunghissimi, nerissimi, ricciutissimi capelli.
Non cambierà il mondo. L’albero forse non fiorirà. Ma ci indica una strada, la finzione, la tensione di questi attori che da più di 50 anni cercano un mondo diverso, provando a svelare le maschere del nostro vivere con la poesia, a volte barocca, a volte esplosiva, questa volta essenziale e fantastica, sempre “politica”. Un sentiero con il quale perderci; per ritrovarci.
Nel libro programma dello spettacolo si legge una nota vergata da Barba a Bali, durante la composizione girovaga di questo spettacolo, oltre le frontiere, oltre gli stili, mescolando forme e sapienze teatrali e facendole dialogare tra loro, senza che nessun attore rinunci alla propria identità:
“(…) Quest’isola è così bella, e vorrei tanto poter inserire una scheggia di questa Bellezza nello spettacolo. A volte è stato insopportabile leggere le notizie dei giornali e la cronaca del mio tempo per travasarle nello spettacolo. Scrivo su un argomento che non piace a nessuno (Li Po). Il mio conforto è stata la bambina che sogna di volare e di lottare contro il Barone Rosso. Anche i due monaci mi hanno aiutato con il loro eroismo ingenuo di piccole azioni”.
Uno spettacolo dell’Odin Teatret è un organismo complesso, che nasce per prove ed errori, cambi di direzione, scoperte non previste. All’inizio a due attrici era stato dato il compito di lavorare su Biancaneve e su Cenerentola. Lo spettacolo doveva intitolarsi Volare e la suggestione del Piccolo principe è evidente. Come l’orrore per i bambini violati dagli orchi delle guerre, dalle violenze. Tutto questo si è depositato in quello spirito della favola, una narrazione mitica con i caratteri più evidenti della semplicità, con profondità e stratificazioni abissali. Scrive Barba ancora nelle note allo spettacolo (la citazione è molto lunga, ma merita di essere riportata):
“Tu vedi lo spettacolo e lo spettacolo vede te. Questa doppia visione – relazione o consapevolezza appena intuita – illumina e disturba. Riconoscere, associare, intendere, organizzare i dati che i sensi registrano e la memoria ha già immagazzinato: il cervello umano non smette di operare in questo modo. È un riflesso naturale dello spettatore la necessità di afferrare l’idea generale dello spettacolo: di che si tratta, che racconta, chi è questo personaggio, perché dice o fa qualcosa. Questo processo cognitivo dà sicurezza e gratificazione. Ma quello che trascende questo processo e rende incomparabile lo spettacolo teatrale come esperienza di un’esperienza è la capacità animale degli attori. È la loro capacità di dare vita a una fitta trama di dettagli sensoriali che colpiscono la parte rettile e limbica del cervello e penetrano nella fisiologia arcaica e nel più profondo della biografia del singolo spettatore: gesti apparentemente incoerenti nel contesto di una data situazione; movimenti enigmatici o solo in parte riconoscibili; ritmi sfasati; forme e colori; orchestrazione di parole, suoni, assonanze e intonazioni; azioni-reazioni come una discontinua linea musicale; simultaneità e successione di immagini, concetti, avvenimenti, silenzi e immobilità; pluralità di scansioni contrastanti – un flusso che ostacola l’intendimento dello spettatore, che spinge a scrutare a lungo un dettaglio e risveglia il riflesso di stare in guardia. Questa giungla di dettagli genera la vera visione dello spettacolo, una visione sconnessa, che non si lascia addomesticare a spiegazioni concettuali. Questa visione appartiene al dialogo solitario dello spettatore con se stesso durante e dopo lo spettacolo. Lo spettatore, come un entomologo, dialoga con i colori e i disegni delle ali delle farfalle che la sua rete è riuscita a catturare”.
Colori delle ali delle farfalle, atlante della complessità dispiegata con policroma polifonia, per precipitare – per percezioni sconnesse – in semplicità risonante, che ti parla di notte dopo la visione, che ti ossessiona ancora nel sonno e al risveglio, con quel tremito, quel rombo d’aria sotto le gambe penetrato in te, con quelle voci guerresche, incalzanti, con le lamentazioni, gli scatti della madre, le carezze alla terra dei monaci, le canzoni infantili dell’aviatrice, le speranze, i racconti. In italiano, balinese, indiano, danese, in altri idiomi; tanti, come il nostro mondo esploso. Con mille gesti e microgesti, quanti quelli di vite che non si lasciano ridurre a troppo semplici sensi, e di una costruzione artistica che vuole gareggiare con le molteplicità di quella vita, farsi artefice di un’altra creazione assumendo come punto di vista quello della lotta a svelare e a formare, a smontare e a riformare, a dare ancora di nuovo una nuova forma: un’opera demiurgica continuamente esposta allo smacco e al desiderio. Come il fare rifiorire un albero secco, appendendoci pere con nastri di stoffa.
Vuoto intorno all’essenziale cerca di fare l’Odin, depistando, riempendo e svuotando continuamente. Intorno allo spettacolo a Lecce sono stati presentati un film e due libri, perché il teatro si nutre di deviazioni, di viaggi, di sguardi aperti: se è tecnica, è tecnica per stare nel mondo. Sono stati mostrati un film, Il paese dove gli alberi volano, di Davide Barletti e Jacopo Quadri. È stato presentato il libro di Vincenzo Santoro Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975) (Squilibri Editore, 2017), sul viaggio dell’Odin nel Salento, a Carpignano e in Barbagia, a confronto con la cultura popolare, negli stessi anni in cui Giuliano Scabia con i suoi studenti e con il Gorilla Quadrumàno viaggiava tra l’Appennino e le periferie e Peter Brook con la sua compagnia multietnica e multinazionale scopriva col teatro i villaggi africani.
L’altro libro è un diverso “ritorno a casa”, nella “terra del rimorso”, della ripetizione rituale e della complessità mai totalmente svelabile. Si intitola I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore (Edizioni di Pagina, 2017) ed è stato scritto da Barba con Nicola Savarese: un uomo di teatro e uno studioso uniti dalla consapevolezza che il teatro si conosce interrogando e sviluppando le pratiche. È un altro atlante, un viaggio in tutto quello che rende possibile la presenza del teatro, gli spazi, le occasioni, le tecniche, gli spettatori, le vocazioni.
Un ulteriore regesto della complessità di un’arte che solo apparentemente riguarda l’intrattenimento, la finzione, l’estroflessione: un’arte che va a scavare dentro, a fondo, verso gli strati e i sentimenti più nascosti dell’uomo che abita il mondo smarrito, nel deserto o nella distruzione; uccello senza rami, migrante per dannazione o per inquietudine, testa decapitata dal corpo (come nello spettacolo), testa e corpo, profondità archeologiche dell’umano che si inseguono per ricomporsi. In cerca di un pero, anche finto, anche solo colorato di stracci.
Di un albero secco da far fiorire con lo scavo algebrico, fantastico, emotivo. Con l’ascolto, la preghiera, l’attenzione, la rinuncia, la meditazione, l’azione, l’invenzione.
Con la precisione degli attori, che rivela valli, cime crepacci: Iben Nagel Rasmussen prima di tutti, con i suoi cantanti molti anni e il volto capace di tornare bambino; Parvathy Baul, cantastorie dai capelli lunghissimi e dalla morbida magnetica presenza; I Wayan Bawa, sapienza scenica e rituale balinese trasposta in ritratto dell’orrore; Roberta Carrieri, la donna igbo cullante abbandono, disperazione, che fa sentire nella carne le offese fatte al mondo degli indifesi; Julia Varley e Donald Kitt, i monaci, la tenacia salmodiante della speranza; Elena Floris, l’altra narratrice, ambigua, seducente; Fausto Pro e Luis Alonzo, presenze funzionali e fantasmatiche; Kai Bredholt, la tigre Arkan, il clown feroce, che sembra reincarnare nella sua figura il compianto per lo scomparso Torgeir Wethal, come un’eredità creativamente rivendicata. E tutto il meraviglioso staff dell’Odin, che potete leggere nella locandina, qui.