Confessioni cine-politiche di due post-adolescenti / Nanni a vent'anni

27 Aprile 2015

Questo non è un pezzo su Nanni Moretti. Questo è un tentativo pubblico di autobiografia (forse persino di autoanalisi) da parte di due “spettatori di mestiere” cresciuti, cinematograficamente parlando, a cavallo fra i due secoli. È  un pezzo su quello che Moretti ha rappresentato per noi, e forse per tutti quelli che sono nati alla fine degli anni Ottanta. Non ce ne vogliano quindi i lettori se dentro vi troveranno più del nostro che del suo.

 

Diciamo subito che per noi, almeno sulle prime, Nanni Moretti non era tanto il regista del sopravvalutato La stanza del figlio, quanto quello dei girotondi contro le “leggi ad personam” e del discorso “contestatario” di Piazza Navona (girotondi, “leggi ad personam”... quante espressioni desuete). In quell'ultimo film, che gli era valso l'incoronazione a Cannes quale Auteur indiscusso, Moretti aveva mostrato un seno di Laura Morante (la “scena primaria” di Caos calmo era ancora di là da venire) e si cominciava a parlare di svolta, di “nuova maturità registica” – anche se, a giudicare dai film successivi si trattava piuttosto di una non richiesta “normalizzazione”. Ancora non potevamo saperlo, ma Moretti si avviava a divenire egli stesso un simbolo dell'establishment bell'e pronto per essere vigorosamente contestato.

 

Moretti a Piazza Navona. Roma, febbraio 2002

 

Nati fra La messa è finita e Palombella rossa, eravamo forse l'ultima generazione vagamente politicizzata in Italia, e proprio mentre iniziavamo a capire qualcosa del mondo ci siamo trovati ad assistere, in rapida successione, al trionfo elettorale (il secondo) di Berlusconi, al G8 di Genova e all'undici settembre. Una tripletta irripetibile. Mentre un po' ovunque si diffondeva un'atmosfera pesante di paranoia collettiva, in Italia il movimentismo di sinistra veniva ridotto al silenzio nel modo più cruento. Vuoi in conseguenza di tutto questo, vuoi per la “retromania” che ha caratterizzato i millenials, avremmo continuato per qualche anno ancora a giocherellare al '68. Una rivoluzione addomesticata e anche un po' naïf fatta di assemblee d'istituto e imagination au pouvoir, aggrappata al passato più che al futuro. Gli anni del liceo diventavano anni di meticoloso studio e improvvisato re-enactment di quel passato mai esistito. E tra i materiali di questa appassionata “operazione di recupero” era finito anche Moretti.

 

Come mai? Ma perché Moretti era un regista che apparteneva ai padri (è nato nel 1953), o al massimo ai fratelli maggiori. L'avevamo scoperto proprio grazie alle videocassette che ci passavano gli amici più grandi o che ci registravamo da soli (il supporto dvd possedeva ancora un nonsoché di esotico, ma ancora per poco), oppure di contrabbando, con qualche download un po' piratesco.  Ripetere “Il dibattito no!” e “Facciamoci del male” era un modo come un altro di partecipare a una narrazione (quella dei padri e dei fratelli più grandi, appunto) che non avevamo mai conosciuto ma che ci sembrava, in un modo un po' contorto, così simile alla nostra.

 

Ecce Bombo, 1978

 

L' universo morettiano, perlomeno quello che va da Io sono un autarchico a Caro diario, con i suoi juke box e i suoi flipper, le sue periferie e i suoi cinema deserti, aveva un rassicurante profumo d'inattualità. Rispecchiava quasi alla perfezione quello che nel profondo sentivamo di essere: anacronistici. Stesso discorso per i personaggi che lo abitavano, più unici che rari nel cinema nostrano (allora come oggi): un ragazzo-padre, un comunista in stato di amnesia, un prete disarmato di fronte all'infelicità degli altri e un professore di matematica disposto al delitto pur di non cedere al compromesso. Erano dei puri, degli idealisti, dei disadattati che sembravano volerci dire che l'intransigenza, l'ostinazione, l'inettitudine o persino la nevrosi non erano limiti, ma “solo” segnali di una (giusta) insofferenza nei confronti di un mondo troppo imperfetto per essere tollerato: erano, insomma, la nostra salvezza.

 

Non solo: Moretti è stato anche uno dei nomi attorno ai quali si è costruita la nostra cultura cinefila – o pseudo-tale, ché ai cinefili “puri” i film di Moretti non sono mai andati a genio: «Lontanissimi dall'ipotesi di cinema che mi affascina di più e che io definirei cinema cinema... Fatti di immagini programmaticamente modeste» (Enrico Ghezzi dixit). Per noi, invece, quelle “immagini modeste”, quella struttura rizomatica, frammentaria, che procedeva per gag e situazioni e non secondo una narrazione coerente, erano il segno flagrante dell'autorialità (parola oggi inascoltabile), sembravano racchiudere la propria visione del mondo nell'immediatezza di un witz. Non era poco, agli occhi di una  generazione cresciuta guardando Zelig e Mai dire Gol, e pronta a spazientirsi qualche anno più tardi se un video su youtube supera i sei minuti di durata.

 

La messa è finita, 1985

 

Insieme al Kubrick di Arancia meccanica, alla Nouvelle vague (non quella di Godard, ma quella più prêt-à-porter di Truffaut), e, ovviamente, a Woody Allen, Moretti ci faceva sentire più intelligenti. Apprezzarlo era innanzitutto una questione di classe (di scuola, non sociale). In fondo, anche questo contava, a sedici anni: la nostra posizione all'interno del gruppo, la gratificante etichetta di “esperti di cinema”. Guardare i suoi film, citarli coi compagnucci, sgranare gli occhi quando qualcuno ammetteva di non conoscerlo e innamorarsi invece di chi lo citava a proposito, diventavano un simbolo di distinzione. I suoi sembravano realizzati appositamente per trasformarsi subito nei film-slogan dei quali ci si appendeva la locandina in camera per espandere (e definire, e scoprire) il proprio sé adolescente. Un pantheon eclettico e senza sensi di colpa, nel quale Nanni Moretti e Mario Monicelli potevano convivere armoniosamente, in barba alle velleitarie contrapposizioni di venticinque anni prima.

 

Rieccola, l'adolescenza. A proposito di Bianca, Roy Menarini ne ha giustamente individuato «l'afflato “leopardiano” così importante per i liceali dallo spleen facile», sottolineandone allo stesso tempo l'urgenza, la consapevolezza, la maturità. Sì, eravamo liceali dallo spleen facile che cercavano, fra mille contraddizioni e resistenze, di approdare in qualche modo alla maturità e alla consapevolezza dei “grandi”. Nei film di Nanni trovavamo proprio questo rifiuto di crescere: «È bello essere bambini, non avere responsabilità e nessuno che ti chiede niente», dice il protagonista de La messa è finita. Di qui i capricci, l'egocentrismo dispotico, i dolciumi come sublimazione del sesso, l'incapacità di accettare i cambiamenti e le imperfezioni delle persone che ama: Nanni è il bambino che si è affacciato al mondo e ha deciso che non gli piace. Un rifiuto categorico, bartlebyano, doloroso e allo stesso tempo rassicurante da osservare. Se infatti può essere doloroso guardare questo personaggio idiosincratico, monolitico e sempre identico a se stesso come quelli dei fumetti, è anche rassicurante ritrovarlo in ogni film, come una certezza, un vecchio amico su cui puoi contare. Al di là della distanza storica, Nanni non è mai stato il fratello maggiore da cui puoi imparare qualcosa, ma sempre un coetaneo, pure un po' infantile, in cui identificarsi senza riserve.  

 

Poi, come si diceva all'inizio, Nanni ha deciso di crescere. Non tanto perché nella vita è diventato padre (senza perdere l'ironia: «Un uomo che deve diventare adulto... Ma perché? Non c'è motivo!»), quanto perché, come artista, ha deciso di gettar via la “maschera” di Michele Apicella per mettersi in gioco in prima persona (Caro diario, Aprile, Il caimano), oppure vestendo i panni – proprio lui! – dello psicoanalista (La stanza del figlio, Habemus Papam). Nel frattempo, però, siamo cresciuti anche noi. Ormai più vicini ai trent'anni che ai venti, ci è sorto il dubbio che forse Ghezzi non avesse tutti i torti, con buona pace dei morettiani d'Oltralpe; che l'impronta così “personale” del suo cinema magari era solo narcisismo; che sotto la cattiveria fustigatrice dei suoi personaggi covasse il rimbrotto moralista di un enfant gâté della Roma bene... Al Nanni “adulto” (invecchiato?) di oggi, quello che va da La stanza del figlio a quest'ultimo, goffo Mia madre, noi continuiamo a preferire il Nanni che fu e che oggi non può più essere. Più coerenti di lui nel rifiuto di una maturità che non può che rappresentare un tradimento, continuiamo a seguirlo fedelmente, ma con malcelata delusione. Un po' come quando, per molti anni, non abbiamo saputo sottrarci alla visione dell'ultimo film di Allen in ricordo dei fasti di Manhattan (di cui ricordiamo tuttora le battute a memoria) o di Io e Annie.

 

Rimane, oltre alla profonda vicinanza ai suoi personaggi, l'affetto viscerale per qualcuno che ci ha cresciuti (o forse ci ha impedito di farlo) tessendo un programmatico – e politico, nel senso più alto del termine – elogio del disagio, e di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Con le situazioni di Ecce Bombo e Io sono un autarchico, in fondo, non abbiamo mai smesso di identificarci. Come profezie autoavveranti che ci sono accadute o che, probabilmente, abbiamo fatte accadere.

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